Tagliati i 100 mila euro stanziati per allontanare gli uccelli. Se è un segnale divino per spiegarci come siamo ridotti, forse è un eccesso di zelo. Ma la punizione che su Roma scende dall’alto ha una sua perfezione sferica, e va a posarsi sul selciato nello stridore di quattro milioni di storni che volteggiano sulla capitale, oscurandone il cielo a sprazzi, e recapitandole altrettanti quotidiani milioni di esiti intestinali.
Lungo il fiume, nei giardini pubblici, sui viali alberati, la città è ricoperta di uno strato misto guano e fango, col contributo delle piogge di ieri. Nei giorni scorsi le fitte precipitazioni (quelle organiche) avevano ottenuto il risultato di rendere scivolosi alcuni tratti del Lungotevere fra la Sinagoga e l’Ara Pacis, fino al punto che ieri l’altro alcuni motociclisti sono finiti gambe all’aria, compreso un vigilie urbano che – dicono le cronache locali – è andato a fermarsi con il ginocchio contro un palo della luce. È stato l’infortunio più rimarchevole di sei consecutivi in un pomeriggio solo, se si vuole derubricare a semplice disagio il tuffo nello sterco, e i protagonisti probabilmente obietterebbero.
Ogni anno, di questa stagione, Roma riceve gli storni. Il problema, dicono alla Lipu (Lega protezione uccelli), è che dal disastrato bilancio della capitale di questo disastrato Paese sono stati tagliati i centomila euro che di solito si stanziano per scoraggiare la permanenza dei pennuti. Si potavano i platani del Tevere, perché vi si annidasse un numero limitato di volatili, e con apparecchi audio si riproducevano i versi dei predatori dello storno (il più pericoloso pare sia il falco pellegrino), di modo che lo storno medesimo se la battesse in campagna, dov’è padrone di farne latrina. E però niente, i centomila euro non c’erano, e per tale somma Roma affoga in quello che avete capito.
E quando la metafora non è più tale, vuol dire che le complicazioni sono serie. Dal Comune sostengono che i tagli risalgono all’amministrazione di Gianni Alemanno, e comunque hanno raccattato qualcosa per ripulire le strade e cacciare i sozzoni.
Girare in centro è uno spettacolo unico, come si sarà intuito. I giardini di largo Arenula, a fianco del ministero della Giustizia, paiono la sede centrale degli storni. Sugli alti alberi, in un frastuono infernale e in un andirivieni frenetico, si alternano migliaia di uccelli. La gente che di sotto aspetta l’autobus tiene gli ombrelli aperti anche quando spiove.
Dopo le quattro del pomeriggio la zona è infrequentabile: a proposito di ombrelli, li si prende anche in caso di sole per proteggersi da quell’altra grandinata. Qualcuno sferraglia con vecchie pentole per liberarsi del nemico giusto il tempo di salire in macchina. E che macchine: tempestate da centinaia di proiettili fisiologici, maniglie comprese. Le piste ciclabili che corrono a fianco del Tevere in alcuni punti erano sabbie mobili, prima che la piena ripulisse qualcosa, ma le proteste dell’Associazione BiciRoma, che conta novemila iscritti, sono state vane.
I marciapiedi sono un supplizio, alcuni impraticabili se non con stivali da pescatore, altri meno orridi, ma comunque li si percorre sentendo sotto le suole uno sciaguattìo ripugnante. Per non particolareggiare sul fetore e i seri impedimenti all’equilibrio: si sta attenti a dove si mettono i piedi, e pure le mani, mentre ci si muove in una parabola biblica nella quale sguazziamo persino con agio.
Mattia Feltri – La Stampa – 13 novembre 2013