Natalia Bobba, da Vinzaglio, è una produttrice di riso. Come il padre, il nonno e il bisnonno. Cento ettari, al confine tra Novara e Vercelli: varietà tonde (chiamate Japonica, ideali per risotti) e soprattutto del tipo allungato (l’Indica, buono per le insalate).
A parte il clima e la semina tardiva, quest’anno ha un problema in più: i chicchi che arrivano dalla Cambogia e dall’Asia. «Non pagano dazio, costano molto meno e stanno invadendo il mercato europeo». Risultato? «Prima un quintale di riso lo pagavano 35 euro, adesso siamo scesi a 27. I costi di produzione sono alti; mi creda: sotto i 30 euro non è conveniente continuare a coltivarlo».
Riso amaro. Soprattutto da quando l’Unione europea ha concesso ad alcuni Paesi in via di sviluppo l’esportazione senza pagare sovrapprezzi doganali. Il programma, che ha indubbie finalità positive di aiuto all’economie in difficoltà, si chiama Eba (Everthing but arms , tutto fuorché le armi). E da Cambogia, Myanmar e Laos sta arrivando veramente di tutto. Il riso per esempio: l’importazione era ferma a 10 mila tonnellate all’anno; in un paio d’anni sono diventate 130 mila, tredici volte tanto.
Per gli italiani, primi produttori di riso in Europa, se continua così è una battaglia di trincea con poche possibilità di uscirne bene. «Tutta la filiera è a rischio se non si torna a garantire una concorrenza corretta — spiega Roberto Magnaghi, direttore dell’Ente nazionale risi —. Non sono prezzi remunerativi, molti produttori si troveranno costretti ad abbandonare».
Tutto il settore sta chiedendo con forza al governo, e soprattutto al ministero delle Politiche agricole, di impegnarsi per far cambiare rotta a Bruxelles. La via d’uscita può essere far valere la cosiddetta «clausola di salvaguardia»: ovvero sospendere gli accordi se questi possono provocare un danno all’economia degli Stati membri.
«È la soluzione, ma bisogna fare presto. A gennaio e febbraio gli agricoltori scelgono cosa seminare, programmano il loro futuro — si infervora Mario Francese, amministratore delegato della Euricom, gruppo leader nella produzione di riso in Italia, 400 milioni di fatturato, 700 dipendenti —. Dobbiamo lottare a tutti i livelli per sensibilizzare chi prende le decisioni a Bruxelles. Chi non lo fa si assume una colpa politica gravissima».
Va detto che l’Europa non è fonte di tutti i mali. Grazie ai contributi che arrivano dalla Comunità (circa 800 euro ad ettaro) la gran parte degli agricoltori riesce ancora a vivere del proprio lavoro. Ma i contributi saranno ridiscussi nel 2015, e non si può pensare a lungo termine contando sugli aiuti altrui.
E pensare che proprio l’Unione europea aveva spinto gli italiani, e non solo loro, a puntare sul riso Indica. La nostra tradizione, soprattutto in Piemonte e Lombardia, era di risotti e varietà come Arborio, Carnaroli o Roma. Ma all’estero chiedevano invece il chicco allungato, piatti di riso come accompagnamento al posto di pasta e pane. È quello che anche da noi comprano gli immigrati, culture gastronomiche diverse.
«Per salvare le nostre produzioni e le nostre tipicità — è convinto Mauro Tonello, imprenditore agricolo emiliano e vicepresidente della Coldiretti — bisogna proprio partire dalla valorizzazione del made in Italy: un risotto alla milanese non è la stessa cosa se si fa con il riso cambogiano. E poi chi ci garantisce della qualità di prodotti che vengono da Paesi dove non ci sono le leggi e i controlli che abbiamo noi. Sapete quanti trattamenti subisce il riso da noi? Due o tre. E in Asia? Anche 17 o 18. È ovvio che la nostra è anche una battaglia a difesa del consumatore».
Natalia Bobba, da Vinzaglio, vorrebbe continuare il lavoro che faceva il bisnonno. «Non saprei cosa altro coltivare. Chi può, chi ha terreni sabbiosi magari si sposta sul mais o sulla soia. Ma molti campi, come i miei, sono vocati proprio a queste produzioni. La risaia è un ecosistema molto particolare; interrompere le produzioni significherebbe alterare un equilibrio secolare» .
Riccardo Bruno – Corriere della Sera – 15 novembre 2013