II dipendente si ammala perché vittima di « mobbing»? Impossibile licenziarlo, anche se la somma delle sue assenze dal luogo in cui svolge l’attività supera il periodo di comporto (l’arco temporale stabilito dalla legge).
E quanto sancisce la Cassazione che, con la sentenza numero 22568, ha respinto il ricorso con cui una società di Brugherio (Monza e Brianza), proprietaria di un supermercato, chiedeva l’interruzione del rapporto lavorativo di un addetto del reparto macelleria, sostenendo che le troppe giornate in cui non si era presentato in ditta fossero sufficienti a giustificarne la perdita del diritto al posto. Opinione rigettata dalla Suprema corte che ha, invece, confermato, come già stabilito prima dal tribunale di Monza e poi dalla Corte d’appello nel 2010, che erano «imputabili alla responsabilità del datore di lavoro le assenze per malattia» dell’uomo e, di conseguenza, i giorni di assenza erano irrilevanti «ai fini del calcolo del periodo di comporto». La vicenda parte nel 2002, quando l’impiegato inizia a ricevere, si legge nel pronunciamento, «una numerosa serie di contestazioni disciplinari, con altrettante sanzioni che andavano dalla multa alla sospensione». E, soprattutto, nel corso dell’inverno (da dicembre a febbraio 2003), ammalatesi, viene sottoposto ad una raffica di «ben 15 visite fiscali di controllo». Pratica proseguita anche nei mesi successivi, quando cioè il dipendente, ricevuto un richiamo particolarmente duro da parte di un suo superiore, ne ricava «una crisi psicologica»; in estate, precisamente a luglio, la società usa il pugno di ferro, e fa scattare la procedura di licenziamento, in virtù del superamento del periodo di comporto. Tuttavia, i magistrati, in seguito ad una perizia medica, appurano che le assenze per malattia sono diretta «conseguenza dell’ambiente lavorativo e della condotta aziendale» posta in essere ai suoi danni, ravvisando il reato di «mobbing» (vessazioni perpetrate laddove si esercita una funzione) suffragato dalle «numerose sanzioni disciplinari, poi accertate come illegittime». Pertanto, la Cassazione, oltre a disporre il reintegro dell’uomo, ha condannato l’impresa a risarcirgli i danni per l’ingiusto licenziamento che gli era stato inflitto.
Italia Oggi – 3 ottobre 2013