Dall’America all’Asia sono infatti le più richieste: la nostra cucina è diventata un mito globale. Merito di grandi chef, ma soprattutto delle nostre 4.698 specialità regionali. Molto imitate ovunque
ANTONIO SCUTERI
Frank Sinatra ne era ghiotto a tal punto da inventarsi spesso improbabili impegni di lavoro in Italia per andarlo a mangiare direttamente a Genova, nel ristorante Zeffirino. E tanto gli piaceva quel gustoso pesto genovese, da farselo regolarmente spedire in aereo negli Stati Uniti. Erano gli anni Cinquanta, e forse la cucina italiana era un mito ancora solo per emigrati e oriundi, celebri o anonimi, alla ricerca dei profumi di casa. Per il resto del mondo, però, la vera grande cucina internazionale era quella francese, con i suoi riti e la sua già lunga e codificata tradizione. Certo, Louis Armstrong andava pazzo per i cannoli siciliani e Ava Gardner per i tortellini del ristorante Pappagallo di Bologna. E come loro tante star e viaggiatori internazionali amavano le nostre ricette. Ma di fatto quella italiana era una cucina che si poteva assaggiare quasi esclusivamente in loco. E raramente i nostri prodotti varcavano i confini.
A distanza di 60 anni il panorama si è completamente rovesciato: i piatti italiani sono diventati linguaggio comune, una koinè gastronomica condivisa anche da chi in Italia non ha mai messo piede. Un mito globale, lo ha definito l’antropologo Marino Niola, che è cibo quotidiano nei paesi anglosassoni, la cucina più amata in Brasile, il gusto sognato dai nuovi ricchi delle tigri asiatiche e dalla ricca borghesia russa. Per non parlare del Giappone, con il suo via vai di giovani aspiranti cuochi che arrivano come stagisti nei nostri ristoranti a carpire i segreti che poi esportano nel loro paese (solo a Tokyo si sfiorano i mille ristoranti italiani). Merito dei nostri cuochi, certo. E delle infinite varianti regionali e locali che fanno sì che non esista una sola cucina italiana, ma una miriade. Un puzzle di sapori nel quale ognuno può trovare la sua tessera preferita. Ma merito anche, e forse soprattutto, degli “ambasciatori” che abbiamo saputo mandare in giro per il mondo: i nostri prodotti d’eccellenza. Da vini regali come il Barolo o il Chianti (anche se i più venduti all’estero sono il Prosecco e il Moscato) all’olio extravergine, dal prosciutto di Parma ai pelati San Mar-zano, dalla mozzarella di bufala campana al Parmigiano Reggiano. E l’elenco potrebbe continuare molto a lungo: ogni regione ha i suoi campioni da mettere in gara, più di ogni altra nazione del mondo. A tutt’oggi sono 4.698 le specialità alimentari censite, con Toscana e Campania a fare la parte del leone. Un successo anche economico che neppure la crisi globale è stata finora in grado di arrestare. Anzi: nel 2012 abbiamo esportato prodotti agroalimentari per 25 miliardi di euro, con una crescita del 7% rispetto all’anno precedente. In alcuni paesi l’incremento è stato a doppia cifra: più 42% in Thailandia ed Emirati Arabi, più 35% in Messico, 30% in Arabia Saudita, 18% in Cina e 17% in Russia. E leggendo le statistiche si scopre, trale altre cose, che la metà del vino prodotto in Italia viene venduto all’estero, che il Grana Padano è il formaggio più venduto al mondo, che l’annuale asta del tartufo bianco si svolge in contemporanea ad Alba e ad Hong Kong (dove raggiunge quotazioni stratosferiche). Oppure che il megastore alimentare Eataly aperto da Oscar Farinetti nel centro di New York è subito entrato nella top ten delle attrazioni più visitate della Grande Mela.
Tutto bene, quindi? Non esattamente, perché il cibo italiano, proprio a causa del suo stesso successo, è sotto assedio. Anzi, un duplice assedio: da un lato i prodotti contraffatti (i pelati fatti con pomodori cinesi, i prosciutti con maiali turchi, la mozzarella di bufala senza latte di bufa-la); e dall’altra l’invasione dei mercati internazionali da parte dei cosiddetti prodotti “italian sounding”, realizzati all’estero ma con nomi che evocano una provenienza italiana, dal Parma Ham canadese alla Mozzarella Sorrento americana, dal Prisecco sloveno all’Italia pasta egiziana. Tutto ciò si traduce in un danno annuale, per l’agroalimentare italiano, di circa 60 miliardi di euro. Basti pensare che il 66% dei prosciutti venduti come italiani sono fatti con maiali allevati all’estero; che il 50% delle mozzarelle hanno latte o cagliate straniere; e che su quattro prodotti italiani venduti all’estero, tre sono falsi. Al primo posto della ben poco onorevole classifica dei prodotti più taroccati troviamo i pelati San Marzano. Seguiti dal Parmigiano Reggiano, il formaggio italiano più famoso del mondo. E infatti non si contano i tentativi di imitazione, e il tentativo di utilizzare il termine Parmesan non come indicazione geografica tipica, ma come aggettivo per descrivere un’intera categoria di prodotti, realizzati in numerosi paesi stranieri. Eppure basterebbe ricordare che già a metà ’800 il Parmesan era noto come “cheese made in Italy, very nutritions”, come si legge nell’Isola del Tesorodi Robert Louis Stevenson, quando il dottor Livesey rivela di conservare, nella sua tabacchiera d’argento, non tabacco, ma appunto un tocco di nutriente Parmesan cheese.
Repubblica – 31 agosto 2013