di Maurizio Sacconi e Michele Tiraboschi. Numerose le proposte di legge elaborate nel corso degli anni (la prima nel 1951). Solo in questa legislatura sono cinque i testi depositati in Parlamento. Una legge sulla rappresentanza sindacale? Se ne parla da oltre sessant’anni, in ragione della mancata attuazione dell’articolo 39 della Costituzione.
La recente sentenza della Corte Costituzionale, che trae spunto dalla dura contrapposizione tra Sergio Marchionne e Maurizio Landini, non ha fatto altro che ravvivare un dibattito mai sopito. Lo testimoniano le numerose proposte di legge sin qui elaborate, a partire dal celebre “progetto Rubinacci” presentato alla Camera il 4 dicembre 1951.
Solo in questo breve scorcio di legislatura, sono ben cinque i testi già depositati in Parlamento. Basterebbe invero ripercorrere con attenzione le ragioni di sessant’anni di astensionismo legislativo per placare la frenesia e l’iperattivismo di chi già prospetta, alla ripresa autunnale, un comodo intervento parlamentare che, nel mettere finalmente d’accordo Fiat e Fiom, sciolga in un sol colpo nodi storici legati a visioni profondamente contrapposte circa il ruolo e la funzione del sindacato in una società moderna. Se così non fosse saremmo probabilmente ancora alla Cgil unitaria dell’immediato dopoguerra e non avremmo conosciuto, con la nascita prima della Cisl e poi della Uil, quel marcato pluralismo che, nella contrapposizione tra sindacato di classe e sindacato dei soci, caratterizza il nostro peculiare sistema di relazioni industriali. Quel che è certo, nonostante alcune prime approssimative letture, è che la sentenza della Corte Costituzionale dello scorso luglio non impone l’urgenza, e tanto meno l’obbligo, di un intervento del Parlamento sulla rappresentanza sindacale e l’esigibilità dei contratti collettivi di lavoro. È la stessa Corte Costituzionale a qualificare il proprio intervento, nei limiti di quanto sollevato dai giudici di merito, come “additivo” nel senso cioè di stabilire un principio interpretativo al quale un giudice (e non necessariamente il Legislatore) dovrà ispirare, in futuro, la propria decisione. In concreto l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori non potrà più essere interpretato nel senso di negare, come sostenuto da Fiat, la possibilità di costituire rappresentanze sindacali aziendali a un soggetto rappresentativo come la Fiom anche là dove decida, nel legittimo esercizio della propria attività sindacale, di non firmare i contratti collettivi applicati dalla azienda. Rispetto alla vicenda Fiat, che di per sé è del tutto peculiare e che certo non può esaurire le articolate e multiformi relazioni tra sindacati e imprese, una legge sindacale non potrebbe pertanto disporre nulla di diverso da quanto già statuito dalla Consulta. La Corte Costituzionale, come è scritto testualmente nella motivazione della sentenza, non affronta dunque il più generale problema della mancata attuazione dell’articolo 39 della Costituzione limitandosi semmai a indicare, in modo aperto e del tutto generico, possibili linee di intervento qualora il Parlamento decidesse, in piena autonomia, di affrontare il tema. Rispetto a un possibile intervento legislativo la Corte parla, più precisamente, di mera “evenienza”. Sgombrato il campo dall’equivoco di un presunto vuoto normativo e dalla conseguente urgenza di intervenire in materia è possibile affrontare con maggiore serenità il confronto sulla legge sindacale e valutarne, nel merito, la reale utilità rispetto ai delicati equilibri del nostro sistema di relazioni industriali. Non senza aver prima ricordato, con Marco Biagi, che soluzioni legislative non hanno mai prodotto, nella esperienza comparata, risultati soddisfacenti. Ciò tanto più rispetto a quelle soluzioni maggioritarie che catalizzano ora l’attenzione degli addetti ai lavori e che tuttavia, nel mettere in competizione tra di loro le diverse anime del sindacato, finiscono con l’indebolire la rappresentanza esasperando le divisioni. La regola maggioritaria applicata alle relazioni industriali finirebbe insomma per rafforzare e radicalizzare quelle posizioni massimaliste del sindacato più demagogico e deresponsabilizzato che pure, almeno a parole, i sostenitori della legge sindacale intendono marginalizzare. Le ragioni del dissenso rispetto a una legge sindacale non si fermano in ogni caso a fredde valutazioni di ordine tecnico e a un pragmatico buon senso. Più ancora rileva la visione di un sistema di relazioni industriali libero e responsabile che non accetta la supremazia della legge e delle logiche pubblicistiche che la sostengono, che paventa una giurisprudenza imponderabile e destabilizzante. In una società aperta e pluralista compete alle sole parti sociali definire le linee della propria azione e organizzazione senza che sia il Legislatore o un giudice dello Stato a indicare, autoritariamente o paternalisticamente poco importa, chi, nella dialettica intersindacale, debba prevalere. È questo il solo modo per tutelare un principio costituzionale di libertà sindacale che si fonda sulla legittimazione degli associati e il riconoscimento della controparte e non certo su una rappresentanza legale di tutti i lavoratori che finisce con lo svuotare di significato l’atto di adesione o meno a una organizzazione sindacale facendo del sindacato niente altro che una grande struttura parastatale e burocratica. È nella forza di questa visione che si spiegano, del resto, sessant’anni di convinto astensionismo legislativo in un campo di libertà e autonomia sociale dove la politica, a ben vedere, ha davvero ben poco o nulla da dire.
da Il Sole 24 Ore – 20 agosto 2013