Cresce la forbice tra i redditi e gli ambulanti si adattano. Se Milton Friedman un mattino d’agosto avesse mai fatto la spesa a Milano, forse tutto adesso sarebbe più chiaro. Premio Nobel per l’economia, fondatore della scuola di Chicago, Friedman pensava che l’uomo è un animale razionale, le cui scelte economiche sono dettate da un innato talento nel perseguire il proprio interesse.
Per questo — sosteneva — un mercato lasciato a se stesso può rasentare la perfezione: un prezzo è sempre “giusto”, una sintesi di domanda, offerta e di tutte le informazioni che le influenzano.
Poi però magari Friedman avrebbe dovuto comprare un chilo di carote al mercato di via San Marco a Milano, un lunedì mattina. È in zona Brera, l’area più ricca della capitale finanziaria e commerciale d’Italia. E lì le carote vengono 2,90 euro al chilo. Invece quattro fermate di metropolitana più in là in viale Papiniano — un quartiere del ceto medio — il prezzo delle carote al mercato rionale crolla a 99 centesimi al chilo. In cinque minuti trascorsi sui mezzi pubblici, un viaggio sulla linea verde del metrò dai ceti abbienti alle classi medie di Milano, la quotazione collassa di due terzi. Si può tentare poi anche un terzo viaggio: sempre partendo dal centro,fermata Turati non lontano da San Marco, si percorre un tragitto di nove fermate e undici minuti di metrò lungo la linea gialla fino al mercato di Corvetto, un quartiere decisamente meno benestante. Lì le carote si trovano a 65 centesimi al chilo.
In sintesi, dall’apice fino alla metà della scala sociale dell’ortofrutta c’è un brusco precipizio, seguito da un graduale declino dalla metà in giù. La carota del ceto abbiente costa circa il triplo di quella del ceto medio; invece la carota del ceto medio costa mezza volta più di quella delle classi che un tempo si definivano, pudicamente, popolari. Qualunque cosa ciò riveli delle distanze fra i redditi nella Milano e nell’Italia nel 2013, a sei anni dal primo trauma globale dei subprime, non si tratta comunque di un esempio isolato. Non, almeno, se si confrontano le varie tipologie di ortofrutta nei tre mercati rionali in centro, a cinque minuti di metrò dal centro e a undici minuti di metrò dal centro. Melone: 3,90 euro a San Marco, 99 centresimi a Papiniano e 90 in Corvetto; albicocche: 3,70 in San Marco, 1,99 a Papiniano, 1,49 in Corvetto. E così via per le pesche, di cui una stessa tipologia a polpa bianca dimezza il prezzo da San Marco a Papiniano, per l’uva bianca, le zucchine, i fichi. Nei mercati rionali, quelli degli ambulanti, sembrascomparsa la pesca media; man mano il ceto ad essa corrispondente veniva schiacciato dalla recessione, anche lei è diventata più difficile da trovare. «La frutta discreta non si vende più: i prezzi sono alti oppure popolari», osserva Salvatore Esposito, un ambulante di 34 anni che il lunedì tiene il banco in San Marco e il martedì in Corvetto. Di solito il martedì rivende a circa la metà la stessa merce che non ha piazzato il lunedì. «In centro in questi anni i prezzi hanno tenuto — constata — . È nei mercati di periferia che sono scesi». Dunque Friedman ha ragione, e la deflazione a macchia di leopardo nei rioni di Milano è davvero “razionale”? In parte sì, se non altro perché la merce più cara è anche la migliore. Ma la qualità non spiega tutto, a giudicare all’Ortomercato di via Lombroso, il più vasto centro per grossisti in Italia dove ogni giorno transitano quintali di frutta. Dall’alba quando un ambulante compra le migliori carote dal grossista a quando le rivende in San Marco alle otto di quella mattina stessa, il loro prezzo è già quadruplicato (da 0,75 a 2,90). La stessa operazione sulle carote meno care, a 0,60 al chilo all’ingrosso, termina con un rincaro del 9% a Corvetto. Fra il meglio e il peggio c’è una dunque differenza del 25% all’alba, che diventa del 350% due ore più tardi sui banchi alle clientela al dettaglio. Anche il fisco ha colto l’allargarsi di questa forbice, fra le quotazioni della frutta e chi la mangia, e l’ha accentuato. Il Comune di Milano tassa gli stessi ambulanti nei diversi mercati in modo sempre più diverso. L’anno scorso il prelievo quotidiano per tenere un banco in San Marco è salito di 4,50 euro al giorno (a 16,75), per Papiniano di 3,5 euro al giorno, mentre per Corvetto è scesa di mezzo euro. A loro volta, gli aggravi fiscali hanno contribuito a moltiplicare in modo esponenziale le disparità dicosto della stessa merce nella stessa città. Il primo lunedì di agosto, in Brera i pomodori datterini andavano a 6,90 al chilo; negli altri mercati di Milano, tre o quattro volte di meno. Anche qui gli economisti non fanno mancare una teoria per spiegare le discrepanze in apparenza inconciliabili; di recente l’ha esposta dal neo-governatore della National Bank of India, Raghuram Rajan: un prezzo alto funziona non solo perché risponde alla domanda, ma perché racconta qualcosa di te. Se spendi molto quando potresti spendere meno, stai dicendo al mondo che sei ricco e quello che compri è il prodotto migliore. Un grande banchiere comprerà un prezioso orologio meccanico fatto a mano, anche se magari non segna l’ora più esattamente di un modello al quarzo da venti euro. E un investitore che si muove con il gregge punta su un titolo azionario sopravvalutato dopo mesi di rialzi, non su uno ai minimi. Se quel cheè vero in Borsa resta vero fra i banchi ortofrutticoli, le differenze di prezzo lavorano sottilmente la mente delle signore abbronzate e ingioiellate che passeggiano fra i banchi di San Marco. Diffiderebbero delle stesse carote, se costassero la metà. Questo forse spiega perché dopo due anni di recessione italiana la gran parte dei clienti di Brera continuino a evitare quei cinque minuti di metrò fino a Papiniano che permetterebbero loro di spendere meno della metà. Se il mercato ha sempre ragione e i suoi attori agiscono razionalmente, alla Friedman, allora non prendono il metrò perché inconsciamente hanno fatto i conti fra costi e opportunità: stimano che nel tempo necessario per il tragitto perdono l’occasione di guadagnare più di quanto risparmierebbero comprando la frutta a Papiniano. Ma forse il mercato è fallibile, può prendere abbagli come gli uomini che lo animano. È la teoria di Roman Frydman, un economista della New York University. Le persone usano il loro denaro con “conoscenza imperfetta”, senza avere tutte le informazioni rilevanti per prendere le migliori decisioni. Non siamo robot. Così è fallita Lehman Brothers e così le famiglie ricche del centro di Milano pagano le carote il triplo anche se non sono tre volte migliori. Semplicemente, non hanno capitoche a cinque minuti di metrò più in là pagherebbero meno. Detto altrimenti, i diversi ceti di Milano non si accorgono gli uni degli altri mentre vivono negli stessi spazi.
A San Marco spesso un’anziana signora si aggira per i banchi con una professionale capacità di mimetizzarsi all’ambiente. Chiede ai passanti un euro o cinquanta centesimi, o si fa regalare la frutta avariata che gli ambulanti mettono da parte; ma sorride con flemma da persona elegante, ha i capelli tinti di fresco, buoni abiti e uno scialle leggero sulle spalle. La pensione minima non le basta, dice. A Milano, secondo l’Inps, 132 mila persone vivono con una pensione media di 471 euro: sono un decimo della popolazione adulta. Ma se la si interroga troppo a lungo, la signora si sottrae e scivola verso il garage sopra il quale si svolge il mercato. Altri anziani nel frattempo si aggirano nei pressi delle cassette di roba ammaccata e scartata, destinata alla spazzatura. Sotto, nel garage, due Bentley, sette Porsche e tre Ferrari ferme al parcheggio, piccola delegazione delle 1108 Ferrari in circolazione a Milano: ma sono già 25 in meno, assicura la motorizzazione, rispetto a cinque anni fa. Dopotutto, non mica è solo a Corvetto che si stringe la cinghia
Repubblica 18 agosto 2013