Le norme draconiane che recidevano doppi incarichi, poltronifici locali, metastasi castali in migliaia di enti e società pubbliche hanno avuto vita breve. Quattro mesi appena, trascorsi tra l’approvazione del decreto anticorruzione e il voto parlamentare sul decreto-del-fare.
Ma sufficienti alla classe politica per verificare sulla propria pelle la portata del testo voluto dall’allora ministro Severino che, esultava il comunicato di Palazzo Chigi, «per la prima volta nel nostro ordinamento considera specificamente gli incarichi dirigenziali e amministrativi di vertice, allo scopo di assicurarne lo svolgimento in modo imparziale» eliminando «ogni potenziale conflitto di interesse».
Quel decreto sottraeva l’espressione «conflitto di interessi» al fatuo immobilismo retorico dei partiti e lo incideva nella carne viva della politica, con un ampio ventaglio di fattispecie di incompatibilità e poteri specifici affidati alla Civit, l’Authority anticorruzione. Effetti dirompenti: centinaia di doppi incarichi cassati e altrettanti politici, capibastone, consiglieri di amministrazione, mandarini ministeriali privati di poltrone e prebende.
Un intollerabile eccesso di calvinismo, per le latitudini italiche. Sono bastati un paio di codicilli agostani inseriti in extremis e senza analogo clamore nella legge di conversione del decreto-del-fare per salvare i doppi incarichi in corso (contrariamente a quanto stabilito dall’Authority, secondo cui il conflitto di interessi va risolto immediatamente) e togliere i poteri di controllo alla stessa Authority indipendente (depotenziata a poco più di un ufficio studi), restituendoli all’amministrazione pubblica, cioè ai politici, cioè agli stessi titolari dei «potenziali conflitti di interesse».
E di nuovo, dunque, liberi tutti. Sindaci e assessori che dirigono contemporaneamente società controllate dello stesso Comune che amministrano. Professionisti a capo di enti pubblici in grado di influenzare la loro attività privata. Dirigenti di Asl che svolgono attività in altri enti sanitari pubblici o privati, regolati o finanziati dalla stessa Asl (la legge Severino – orrore! – estendeva le incompatibilità anche a casi di parentele). Parlamentari e membri del governo che continuano a dirigere enti locali o aziende pubbliche. Consiglieri comunali, provinciali e regionali che accumulano posti nei Consigli di amministrazione di aziende pubbliche…
L’Authority, del resto, non aveva fatto nulla per meritarsi la fiducia della politica. Troppo indipendente, troppo rigorosa. Nel giro di pochi mesi aveva infilato una serie di delibere micidiali, sia su casi specifici (dichiarando l’incompatibilità) che in generale sul decreto Severino, rifiutando interpretazioni di comodo. E si preparava a decidere su altre centinaia di fascicoli. Così, quando ha scritto a governo e Parlamento, esprimendo «profonda preoccupazione» spiegando che le nuove norme vanificavano quelle anticorruzione e i trattati internazionali a cui erano agganciate, è stata sonoramente ignorata da istituzioni e partiti, eccezione fatta per i parlamentari del M5S.
11 agosto 2013 – Corriere.it