I controlli della Forestale sull’eventuale utilizzo di grano duro importato. Le aziende: nessuna violazione. Il marchio accuratamente fasciato dal tricolore, due caratteristici trulli e il mare della Puglia. Che cos’altro può suggerire meglio del logo quanto conti il made in Italy per la Divella?
E’ a Rutigliano, piccolo comune del barese, che nel 1890 il fondatore Francesco realizzò il primo molino per la macinazione del grano. Ora è una realtà da 280 dipendenti, tre stabilimenti e 1.200 tonnellate di grano duro utilizzate ogni anno per la produzione della pasta. Si tratta di uno dei marchi più conosciuti, al pari di Barilla, Garofalo, Voiello, Buitoni, De Cecco solo per citarne alcuni. Soprattutto Divella è uno dei fiori all’occhiello di un settore in cui il made in Italy trionfa incontrastato da decenni: la pasta, come la pizza, è forse il prodotto italiano di esportazione più conosciuto al mondo e neanche la Grande Crisi ha intaccato i «margini» degli operatori, tanto che nel 2012 la produzione italiana ha raggiunto il valore-record di 4,6 miliardi di euro e le esportazioni hanno superato 1,8 milioni di tonnellate (+1,8% rispetto al 2011).
Eppure in un quadro così roseo (e un fatturato in crescita anno su anno) in Divella circola il timore che quella bandiera italiana orgogliosamente esibita nel logo possa essere a breve un amaro ricordo. Il motivo è presto detto: Divella, come altri marchi, utilizza un buon 30% di grano duro d’importazione estera (proveniente in gran parte da Canada e Ucraina) perché — secondo quanto afferma Aidepi (l’associazione dell’industria del dolce e della pasta italiane aderente a Confindustria) — il consumo italiano di pasta è talmente alto che il nostro Paese è costretto ad importare grano da oltre-frontiera. Così — secondo una recente legge in materia di etichettatura di prodotti alimentari licenziata dal Parlamento nel 2011 — quel vessillo tricolore presente nel logo potrebbe fuorviare il consumatore all’atto dell’acquisto, dato che il grano utilizzato non sarebbe 100% italiano. Di più: sarebbe persino in atto un’attività ispettiva da parte del Corpo Forestale dello Stato — competente per le frodi alimentari — che avrebbe «attenzionato» proprio il logo di Divella per accertare o meno l’applicazione della legge circa l’effettiva origine dei prodotti alimentari.
Da qui la levata di scudi dei produttori. Nell’ultima assemblea annuale dell’Aidepi il suo presidente, Paolo Barilla, ha tuonato contro «le normative nazionali apparse intempestive rispetto alla legge comunitaria. Soprattutto perché non vendiamo solo prodotti, ma vendiamo lo Stile Italia, in cui il concetto di made in Italy s’identifica nel saper fare e non nell’origine della materia prima». Rincara Luca Garaglini, vice-direttore Aidepi, che «l’essenza della pasta italiana sta nella ricetta, cioè nel processo di trasformazione del grano duro in farina». Insomma si tratterebbe di know-how , difficilmente replicabile altrove. E quindi il caso del tricolore della Divella sarebbe rappresentativo di un Paese che fa la guerra alle sue aziende migliori, utilizzando lo specchietto di una legge che sarebbe persino «in contrasto con la normativa comunitaria» (dice Garaglini) la quale assegna la provenienza all’origine doganale del prodotto, cioè dove il grano viene effettivamente trasformato. Di tutt’altro avviso Sergio Marini, presidente della Coldiretti, che parla di battaglia di lobby da parte dei pastai e anzi rivendica la necessità di una maggiore trasparenza nei confronti del consumatore che «ha il diritto di veder segnalato da dove arriva il grano duro utilizzato dalle aziende».
Al tema dell’etichettatura si sovrappone quello di una filiera in cui i piccoli agricoltori italiani sarebbero spesso vittima di un ingranaggio più grande di loro. Dice Marini che «le attività ispettive dovrebbero verificare o meno l’esistenza di eventuali cartelli sul prezzo del grano, con l’acquisto da parte di alcune aziende di ingenti quantitativi oltre-frontiera, che provocano un’eccesso di offerta tale da abbatterne il prezzo e mandare sul lastrico migliaia di agricoltori». Anche loro tricolori.
Fabio Savelli – Corriere della Sera – 27 luglio 2013