di Giuliano Cazzola. Si parla di manutenzione, di interventi con il cacciavite, ma è presente e forte il rischio che la riforma delle pensioni, varata dal Governo Monti e molto apprezzata in Europa, subisca delle revisioni profonde.
Le proposte di modifica che circolano nell’incerto dibattito di inizio legislatura, sono tutte “politicamente corrette”, quasi da manuale delle buone intenzioni, come se il Governo delle larghe intese e del salto generazionale volesse mettere in agenda tutte quelle misure virtuose che, da sempre, si citano nei dibattiti, si scrivono nei saggi senza che abbiano trovato, poi, riscontro nella cruda realtà.
È il caso, ad esempio, del pensionamento flessibile. Già previsto, nel sistema contributivo, ai tempi della riforma Dini del ’95 è stato rievocato più volte in quest’ultimo (quasi) ventennio (chi scrive nella passata legislatura ha presentato due progetti di legge in tal senso, mai presi in considerazione, anzi osteggiati). Oggi il criterio della flessibilità del pensionamento ha trovato posto nelle comunicazioni sulla fiducia del presidente Letta e di conseguenza in diverse dichiarazioni del ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, nonché in un progetto di legge presentato alla Camera, come primo firmatario, dal presidente della Commissione Lavoro, Cesare Damiano. Ovviamente, prima di dare giudizi definitivi sulle intenzioni dell’esecutivo è opportuno aspettare i testi. D’acchito, però, ci sentiamo di affermare che non appartiene al novero delle cose possibili introdurre una forma di pensionamento flessibile (tra 62 e 70 anni, ad esempio) senza abbassare i requisiti anagrafici e contributivi previsti dalla riforma Fornero (determinando, pertanto, gli effetti economici conseguenti). Il progetto Damiano, infatti, reintroduce, in pratica, il trattamento di anzianità, seppure sottoponendolo a penalizzazione, e riporta indietro l’età pensionabile di vecchiaia delle lavoratrici.
Al dunque, gli interventi immaginati, più che prendere in considerazione una prospettiva di lungo periodo, sono rivolti a prefigurare, negli anni a venire, un’uscita di sicurezza non per gli “esodati” pre-riforma, ma per tutti i lavoratori, “esodandi” o no. Proprio perché, in materia pensionistica, anche i Governi nuovi finiscono sempre per “rammendare le solite vecchie calze” il ministro Giovannini ha ipotizzato – un proposito lodevole – un “taglio” alle c.d. pensioni d’oro (magari anche a quelle d’argento) per reperire delle risorse da destinare all’occupazione dei giovani. Sappiamo esservi in proposito una giurisprudenza costituzionale consolidata ostile e vigile. Sarebbe il caso, allora, di tentare un nuovo approccio al problema, un po’ più equo e ragionevole del solito contributo di solidarietà imposto per un tempo determinato.
Le c.d. pensioni d’oro non sono inique di per sé, se sorrette da contributi versati, ma lo diventano soltanto per effetto della “rendita di posizione” conferita, eventualmente, dall’applicazione del sistema retributivo. Si potrebbe, allora, effettuare per i trattamenti in atto, liquidati con il modello retributivo e superiori ad un certo importo (5mila euro mensili lordi?), un ricalcolo secondo i criteri del sistema contributivo, operando, se del caso, una ritenuta congrua sullo scostamento tra i due differenti importi. Tale procedimento sarebbe tecnicamente possibile per le prestazioni dell’Inps (l’Istituto detiene le posizioni contributive di tutti i lavoratori a partire dal 1974), mentre sorgerebbero dei problemi, non insormontabili, nel caso del pubblico impiego e soprattutto dei dipendenti dello Stato la cui Cassa è stata istituita nel 1995. Si potrebbe poi, alla buon ora, chiedere un contributo alle pensioni baby (sono 500mila) da calcolare sulla differenza tra l’importo dell’assegno e quello del trattamento minimo.
Buon’ultima viene la staffetta anziano/giovane. Non sarebbe la prima volta che si tenta un’esperienza siffatta, fino ad oggi contraddistinta da clamorosi fallimenti. La novità, adesso, sarebbe l’onerosa presa in carico da parte dello Stato della contribuzione mancante al lavoratore anziano passato a un regime di part time ripartito con il giovane, in modo da non doverne soffrire sul piano della pensione. Prudentemente, il ministro Giovannini ha ipotizzato uno stock di 50mila casi. A mio avviso, occorre molta fiducia nelle persone per immaginare che un siffatto esperimento abbia successo, a meno che l’operazione non comporti un particolare vantaggio per il lavoratore anziano, come l’anticipo dell’accesso alla pensione o, ancora peggio, la possibilità di condividere il posto di lavoro con un figlio o un parente.
2 giugno 2013