«Sono grato al presidente del Consiglio e al Capo dello Stato per la fiducia». Fabrizio Saccomanni apprende nella sua casa di Cetona di doversi sedere d’ora in avanti alla scrivania di Quintino Sella.
Il nuovo ministro dell’Economia, era lì, nel piccolo borgo toscano, per una breve pausa dopo le ultime fatiche al vertice Fmi di Washington, dopo una conferenza sui grandi problemi dell’economia a New York e una puntata a Francoforte, presso la Bce, a discutere dell’unione bancaria del domani. Lo sapeva, naturalmente, che ci si stava orientando proprio su di lui. Ma fino all’ultimo la scelta è sembrata in forse. Pare che sia stato proprio Giorgio Napolitano a “blindare” il suo nome, a dire che non era negoziabile perché il paese, in un momento così difficile, ha bisogno di avere in questo ministero cruciale un personaggio ben conosciuto all’estero, oltre al sostegno pieno della Banca d’Italia: una istituzione al servizio dell’Italia, appunto, non solo una “fabbrica” di tecnici.
Saccomanni ha già un’agenda precisa in testa. Vuole puntare sulla crescita, senza esitazioni. Vuole coinvolgere le banche, le imprese e i consumatori in un grande “patto”, capace di rimuovere quel «fattore di incertezza psicologica», così lo definisce, che finora ha indotto tutti questi soggetti all’attesa col risultato che non ci sono investimenti, né prestiti, né consumi mentre la recessione continua implacabile a mordere. E’ convinto che serve «uno sforzo coordinato» di tutti per «ripristinare il bene prezioso della fiducia». Sul piano più tecnico, nella visione di questo ennesimo economista prestato alla politica, ci vuole quella che chiama «una ricomposizione della spesa», secondo una «impostazione di tipo politico», appunto, che «solo un governo può dare». E dunque, da ministro, pur senza mai venir meno ai vincoli di bilancio della Ue, vuole dare sostegno «alle imprese e alle fasce più deboli della popolazione » attraverso «una ricomposizione del bilancio pubblico». Ancora più nel dettaglio, Saccomanni punta ad un contenimento della pressione fiscale attraverso un taglio della spesa corrente. Se riuscirà, allora sì che lo spread, il segnalatore numero uno dei malesseri nazionali potrà scendere «a quota 100 e anche meno», questo il valore ideale che il paese meriterebbe, anziché tre volte tanto come è ora. E c’è poco da «essere contenti » di questo livello, aveva detto a Washington, giusto pochi giorni fa. Saccomanni è convinto che in termini di disavanzo l’Italia di oggi, dopo la cura Monti, stia meglio di tanti altri partner. Il problema è che non cresce. Di qui la necessità di riagguantare la fiducia, con le imprese che «si riposizionano sul mercato», le banche che non hanno più paura di concedere prestiti e i consumatori che consumano.
Classe 1942, una vita spesa in Banca d’Italia fino alla poltrona di direttore generale, il nuovo responsabile dell’Economia è consapevole di doversi muovere lungo un sentiero stretto. Sa che non sarà facile neppure convincere gli altri partner. Ma anni e anni di lavoro sullo scacchiere internazionale come “sherpa” per le tutte questioni-chiave, possono tornargli molto utili. E’ stato lui, per dire, a disegnare i confini tecnici del Trattato di Maastricht, l’architrave su cui si basa l’unione monetaria, dove basta un aggettivo per cambiare radicalmente il senso delle cose. Per l’Italia, ad esempio, risultò cruciale quel “tendere” al 60% di debito-Pil sui cui battagliò Carli, a quei tempi. Sempre a lui è toccato gestire il delicato passaggio dalla lira all’euro — c’era Ciampi, in quella fase — con tutto l’armamentario tecnico che ha comportato, dal funzionamento del sistema dei pagamenti fino ai bancomat, che in 24 ore dovevano sfornare la nuova moneta. Sempre lui teneva i contatti con Padoa-Schioppa, quando l’amico di sempre sedette per primo nel board dell’Eurotower: anzi, in qualche maniera gli cedette il posto, nel defatigante negoziato notturno dei big europei, riuniti a Bruxelles per definire l’assetto di vertice della neonata istituzione. Anche alla Bers è di casa. E pure al Fmi, dove è stato per cinque anni, fino al 1975. Ai G7 come al G20 poi, è sempre presente. E giusto in queste settimane sta coordinando i tanti, delicatissimi passaggi che un domani assai prossimo vedranno concentrati nelle mani della Bce tutti i poteri di vigilanza bancaria per l’intera Ue.
Laurea alla Bocconi, master alla Princeton University, per lavoro e per carattere, Saccomanni è capace a darsi un metodo e di assumersi le responsabilità. Conosce l’arte del banchiere centrale, ma soprattutto, sa negoziare. Ama il cinema e la musica classica. Scrive poesie in dialetto romanesco e cita a memoria i sonetti del Belli. Draghi lo avrebbe voluto governatore al suo posto. Poi nel gioco dei veti incrociati è prevalso Visco che lo stima e lo ha da poco riconfermato nell’incarico a palazzo Koch. Ora dovrà sostituirlo. Se prevarrà la soluzione interna, in pole position c’è Salvatore Rossi, il più “anziano” dei vicedirettori, selezionato da Napolitano nel club dei “saggi” o “facilitatori” che hanno fatto l’istruttoria per il nuovo governo.
Repubblica – 29 aprile 2013