L’accusa di bancarotta per 12 milioni di lire lievitati. L’imprenditore: «Quasi 20 anni di calvario»
«Stavo bene, non posso negarlo. Ogni mio compleanno andavo a Bormio, mi permettevo crociere e vacanze, però guardi che io e mia moglie lavoravamo giorno e notte. Ora lavoriamo per pagare i debiti». La storia di Giovanni D. (l’iniziale per uno strascico di problemi finanziari), 54 anni, di Fara Gera d’Adda, è un calvario: quasi vent’anni di cartelle esattoriali e debiti con le banche lievitati, fino al processo per bancarotta fraudolenta per distrazione. Soldi usati in buona parte per pagare Equitalia. Ora il riscatto: l’assoluzione «perché il fatto non costituisce reato». L’ha chiesta lo stesso pm. Per i giudici, in sostanza, l’imprenditore non ha macchinato nessun fallimento. Anzi, ha fatto di tutto per mettere le pezze ai debiti. Ma il verdetto non addolcisce l’amarezza che gli sta appiccicata addosso come una seconda pelle: «Forse sarebbe stato meglio andare in galera ma avere ancora lavoro». Invece ha perso tutto: la tranquillità economica, tant’è che «prima al supermercato riempivamo il carrello, ora prendiamo il cestino e controlliamo con cura tutti i prezzi», l’azienda, le case, il lavoro, e la fiducia della banche.
La sua vicenda inizia tanti anni fa.
«Dal 1986 al 1993 sono stato socio con altre tre persone, una era mio fratello, di un caseificio. Poi sono uscito, perché ho avuto un brutto incidente e con i soldi dell’assicurazione nel’94 ho aperto un’altra attività con mia moglie. Assemblavamo parti elettroniche. Ma ho lasciato la mia firma nella precedente società ed è stata la mia rovina».
Le cartelle esattoriali.
«Nemmeno il tempo di aprire la nuova società e mi sono piombate addosso. Non ne sapevo nulla: 12 milioni di lire che con il tempo sono lievitati a 240 mila euro. Arrivavano a me, perché gli altri soci non avevano beni. Prima dalla Bergamo Esattorie, poi da Equitalia, a mio nome e con quello dell’azienda. Un caos».
Come ha reagito?
«La mia rabbia era che non c’entravo nulla se non per quella firma. Ha ho detto “pago tutto quello che devo pagare”. Ho sempre messo la faccia e non mi sono mai nascosto».
Come avete fatto lei e la sua famiglia?
«Nel 1995 abbiamo svenduto per 140 milioni di lire – metà del prezzo che valeva – una casa a Cisano. Metà sono andati alla Bergamo Esattorie e metà alla banca, perché avevo un mutuo».
Il debito, però, non era saldato.
«No. Nel frattempo sono arrivate altre cartelle. Allora, nel 2003, io e mia moglie abbiamo venduto anche un’altra casetta che avevamo preso a Blello: tra acquisto e ristrutturazione ci era costata 260.000 euro, l’abbiamo data via a 160.000. Così 120.000 sono andati a Equitalia e 80.000 alla banca».
Fatti i conti, quanto le rimaneva da pagare?
«Di cartelle esattoriali sui 79.000 euro. Ho ottenuto la rateizzazione. Potevo farcela: 1.000 euro al mese a Equitalia e 500 euro per noi».
Come campare con 500 euro al mese?
«Lavoravamo e basta e i miei figli non avevano pretese. Appassionati di calcio, la loro massima richiesta era un paio di scarpe per giocare a pallone».
Allora com’è arrivato il tracollo?
«Colpa della concorrenza cinese. Pensi che dalla Germania avevo ordini per 450.000 euro revocati nel giro di due mesi: mi hanno detto “o ci fai gli stessi prezzi o compriamo da loro”; io ho risposto che non potevo. Intanto i clienti erano in crisi e non pagavano, due sono pure falliti».
A quel punto ha chiuso?
«Ma no. Mi hanno anche consigliato di fallire, ma non lo avrei mai fatto per orgoglio».
Che cosa ha fatto?
«Erano arrivate altre cartelle. Quindi ho venduto la casa di mia moglie in cui vivevamo, a 230.000 euro a fronte di un valore di 400.000. Ero in rosso di 80.000 euro con la banca che, saputo della vendita dell’abitazione, mi ha chiamato e ha detto che dovevo portare i soldi da loro. Ma nel frattempo ho pagato le mie sette dipendenti, alcune con figli, che ho dovuto licenziare. Prima, però, io e mia moglie abbiamo trovato un nuovo lavoro a tutte. Poi c’erano i fornitori, avevano diritto di essere pagati. Ricordo che uno aveva dei bambini malati».
Possedeva altri beni?
«Certo, il capannone. Avevo trovato un acquirente. Valeva 355.000 euro: con quei soldi avrei pagato Equitalia, che nel frattempo voleva metterlo all’asta, la banca, il mutuo in un’altra banca e mi sarebbero rimasti 50.000 euro. Ho detto a mia moglie “tiriamo su le maniche e andiamo avanti”. Ma nel 2010 mi è arrivato il pignoramento cautelativo e a luglio è stato dichiarato il mio fallimento. Non l’ho mica chiesto io. Non l’avrei mai dichiarato».
Poi l’accusa di bancarotta fraudolenta per sottrazione: 244.388 euro tolti dalla sua precedente attività per pagare Equitalia e altri 115.324 dal conto in banca per privilegiare altri creditori.
«Ma ci pensa? Non ho tolto i soldi dalla società, erano i miei, provento della vendita delle case. Siamo finiti per sei mesi in un container. Ma ripeto, non ho nascosto nulla alla banca. Ho chiesto aiuto anche a mia suocera che mi ha prestato 60.000 euro».
Finire sotto accusa, un grosso peso.
«Notti insonni. Mia moglie piangeva di nascosto. Ma ho uno spirito battagliero e la mia famiglia è unita, mi seguirebbe anche se mi buttassi nel fuoco. Che cosa dovevo fare, andare a rubare o gettarmi nell’Adda? Mai».
I giudici le hanno creduto. Un riscatto.
«Sapevo che la verità sarebbe saltata fuori. Se fossi finito in carcere, avrei scritto un libro per raccontarla. Sono stato assolto, sì, però sono rovinato. Io e la mia famiglia. Nessuno ci dà più fiducia. Pensi che abbiamo chiesto i sussidi, ma ci hanno risposto “siete imprenditori, non vi spettano”».
E ora i debiti sono ripianati?
«Magari. A Equitalia dobbiamo ancora 62.000 euro, ma si prenderanno l’ipoteca sul capannone, che andrà all’asta; il debito di 118.000 euro con una banca è diventato di 190.000, e quello con un’altra da 11.000 euro è salito a 62.000».
Scusi, ma come fa?
«Mi arrangio, vado a lavorare dove capita, nei cantieri, ovunque, so fare di tutto».
E dove vive?
«Nel mio capannone. Mio si fa per dire, perché sta per andare all’asta. Sono passato dalle stelle alle stalle, ma non per colpa mia. Se avessi speso soldi in Ferrari e li avessi nascosti chissà dove, direi che tutto questo l’ho voluto io, ma quelle cartelle esattoriali non erano mie».
Corriere.it – 29 marzo 2013