Alle Regionali incandidabilità «perpetua» con sentenza definitiva. Nel 1995, quando era sindaco di Rocchetta al Volturno (1.100 abitanti in provincia di Isernia) non concesse la piazza a una manifestazione del Pds e per questo rimediò nel 2001 una condanna definitiva per abuso d’ufficio.
Per questa condanna il segretario molisano del Psi, Michele Miniscalco, è stato escluso definitivamente dal Consiglio di Stato dalla corsa alle regionali di domenica prossima (dov’era candidato in una lista d’appoggio al centrosinistra), mentre avrebbe potuto tranquillamente aspirare alla Camera o al Senato. Una condanna defmitiva in curriculum cancella ogni chance alle elezioni regionali e alle nomine di competenza nei Consigli regionali, anche se la sentenza è vecchia e quindi precede la normativa “anti-corruzione” (Dlgs 235/2012). Non accade però lo stesso per il Parlamento italiano o europeo, perché in quel caso lo stop non è perpetuo. A ratificare l’incandidabilità definitiva in Regione è la sentenza 695/2013 del Consiglio di Stato: l’impossibilità di partecipare alle elezioni, spiegano i giudici, non va intesa come una «sanzione», ma rappresenta la conseguenza dei parametri pensati per allontanare da incarichi pubblici i soggetti caratterizzati da «radicale inidoneità», per cui la sua applicazione per vecchie condanne non pone problemi di «retroattività» in eventuale contrasto con l’articolo 25 della Costituzione (in base al quale «nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso»). Per queste ragioni, della questione non va investita la Corte costituzionale. Con questo ragionamento, il Consiglio di Stato cancella in blocco ogni tentativo di far rientrare nei Consigli e nella galassia degli enti regionali i politici condannati in via definitiva ad almeno sei mesi per reati collegati alla pubblica amministrazione o ad almeno due anni per delitti non colposi, sulla base dei criteri fissati con l’articolo 7 del Dlgs 235/2012.
Il problema affrontato dai giudici non 61a gravità della condanna, ma il suo carattere definitivo: come mostra per esempio, per restare in Molise, il caso di Michele Iorio (Pdl), appena condannato a un anno e sei mesi (e interdizione dai pubblici uffici) per due consulenze date al figlio ma regolarmente in corsa per restare alla presidenza della Regione perché la sentenza che lo riguarda è di primo grado. Al di là dei casi specifici, l’importanza della pronuncia sta nel fatto che il Consiglio di Stato blinda l’esclusione “perpetua” dei condannati dai Consigli e dalle nomine regionali. La sentenza definitiva per una delle tante fattispecie previste dall’articolo 7 del Dlgs 235 è, secondo i giudici amministrativi, il «presupposto oggettivo» in grado di determinare «l’indegnità morale» a ricoprire la carica. In questo contesto, l’esclusione per vecchie condanne non produce «una situazione di retroattività», ma anzi applica il principio generale del tempus regit actum, per cui si applica «la normativa sostanziale vigente al momento dell’esercizio del potere amministrativo». Fin qui il ragionamento giuridico, che lascia però aperti sul piano sostanziale aspetti paradossali sollevati dalla stessa norma. Lo stesso Miniscalco, per esempio, avrebbe potuto tranquillamente candidarsi al Senato, alla Camera o al Parlamento europeo, perché in questo caso l’incandidabilità non è perpetua ma tramonta dopo un tempo doppio rispetto alla durata dell’interdizione (purché passino almeno sei anni: lo prevede l’articolo 13). Secondo il Consiglio di Stato, questo doppio binario non è tacciabile di «irragionevolezza», perché «la diversità delle elezioni e delle cariche» in gioco «non consentono di sindacare l’apprezzamento discrezionale operato dal legislatore» e di conseguenza la questione non merita di interessare la Corte costituzionale.
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Incandidabilità L‘impossibilità a candidarsi è stabilita dal decreto legislativo 235/2012, attuativo della legge “anti-corruzione”, per chi viene condannato in via definitiva per una serie di reati connessi alla Pubblica amministrazione (condanna ad almeno sei mesi) o delitti non colposi (almeno due anni). Nel caso delle elezioni regionali e delle nomine di competenza dei consigli regionali, la normativa non prevede una decadenza dell’incandidabilità, prevista invece per le elezioni alla Camera, al Senato e al Parlamento europeo
Il ragionamento dei giudici «Non è infatti suscettibile di condivisione il presupposto, da cui muove l’appellante, della natura sanzionatoria della disposizione preclusiva in parola in quanto nel caso in esame non solo non si tratta affatto di misure di natura sanzionatoria penale, ma neppure di sanzioni amministrative o di disposizioni in senso ampio sanzionatorie. La disposizione in questione contempla casi di non candidabilità che il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, ha ritenuto di configurare in relazione al fatto che l’aspirante candidato abbia subito condanne in relazione a determinate tipologie di reato caratterizzate da uno speciale disvalore (Corte Costituzionale, sentenze n. 407/1992; n.114/1998). Ilfine primario perseguito è quello di allontanare dallo svolgimento del rilevante munus pubblico i soggetti la cui radicale inidoneità sia conclamata da irrevocabili pronunzie di giustizia. In questo quadro la condanna penale irrevocabile è presa in considerazione come mero presupposto oggettivo cui è ricollegato un giudizio di “indegnità morale” a ricoprire determinate cariche elettive: la condanna stessa viene, quindi, configurata alla stregua di “requisito negativo” o “qualifica negativa” ai fini della capacità di partecipare alla competizione elettorale e di mantenere la carica (Corte Costituzionale, sentenza 31 marzo 1998, n.114, con riguardo all’analoga fattispecie delle cause di incandidabilità previste, in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali, dalla legge 18 gennaio 1992, n. 16)».
20 febbraio 2013