L’amministrazione può sindacare l’entità dei compensi corrisposti agli amministratori dalla società. A fare questo deciso passo indietro, rispetto alle ultime pronunce dello stesso giudice, è la Corte di cassazione, VI sezione civile T, con l’ordinanza 3243 depositata ieri. Di recente, tuttavia, con articolate motivazioni, la stessa Suprema Corte si era espressa in modo esattamente opposto.
La vicenda trae origine dalla ripresa a tassazione di parte di un compenso erogato da una srl all’amministratore unico. Non emergono dalla pronuncia i termini della questione e quindi l’entità del compenso stimato eccessivo dall’amministrazione e, soprattutto, se questo sia stato interamente tassato dal percettore.
In buona sostanza, la Cassazione ha confermato il giudizio di secondo grado ritenendo il compenso sproporzionato anche in considerazione del fatto che la società non aveva né dedotto, né fornito prova dell’esistenza di ragioni economiche giustificative. La difesa, nel ricorso ai giudici di legittimità, eccepiva l’impossibilità per l’amministrazione di valutare l’importo erogato.
La Suprema Corte ha respinto il ricorso affrontando la questione quasi esclusivamente sul fatto che l’onere della prova dell’inerenza dei costi grava sul contribuente, e tale onere ha ad oggetto anche la congruità dei compensi degli amministratori.
Viene così citata giurisprudenza, anche recente, ma non sulla sindacabilità dei compensi, bensì sul l’onere probatorio relativo all’inerenza dei costi.
I giudici hanno poi evidenziato che questo principio non risulta incompatibile con la previgente disciplina che prevedeva delle limitazioni di tipo quantitativo ai compensi, limitazioni non più presenti nel testo vigente.
L’ordinanza lascia obiettivamente perplessi perché non tiene conto della più recente giurisprudenza di legittimità che, proprio sulla medesima questione, si è espressa esattamente in modo contrario. È il caso della sentenza 24957/2010 la quale, dopo aver effettuato una disamina approfondita della questione, aveva evidenziato anche l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in materia, tanto da richiedere inizialmente un pronunciamento delle Sezioni Unite, poi ritenuto non più necessario (ma che forse ora appare indifferibile).
In questa pronuncia, a quanto risulta mai smentita prima di questa ordinanza, si era anche sostenuto che proprio perché le nuove norme nulla disponevano al riguardo, occorreva dedurre che il legislatore non aveva inteso porre alcuna limitazione alla deducibilità dei compensi come invece avveniva in passato.
La nuova decisione, se non resterà isolata, rischia in concreto di generare non pochi problemi in sede di controllo. È prassi dei verificatori, infatti, sindacare la congruità dei compensi quando ispezionano la società, salvo poi ritenerli bassi se controllano la persona fisica che li ha ricevuti. Vi sarebbe solo da chiedersi quale possa essere l’intento elusivo (e il danno per l’Erario) se una società deduce una somma con Ires al 27,5% per far pagare al percettore della medesima oltre il 40% di imposte.
Il Sole 24 Ore – 14 febbraio 2013