In poche settimane morti avvelenati 10 pachidermi «pigmei». Lo hanno trovato che accarezzava la madre. Disperato, le toccava la fronte con grazia leggera perché si risvegliasse, perché si rialzasse, perché tornasse da lui.
Non poteva — o forse non voleva — capire, il piccolo elefantino del Borneo, che la sua mamma era morta, uccisa da un veleno che per qualche miracolo ha risparmiato il cucciolo di soli tre mesi. Come lei, nelle ultime settimane, le autorità dello Stato di Sabah, nel settore malese del Borneo, hanno scoperto altri nove rarissimi elefanti pigmei (Elephas maximus borneensis) riversi nella giungla, tutti abbattuti da una misteriosa sostanza che non ha dato loro scampo e che deve ancora essere identificata. «Stiamo facendo le analisi del caso — ha dichiarato Masidi Manjun, il ministro dell’Ambiente —. È comunque un giorno molto triste per tutti noi, per l’ambiente naturale».
Dicono che gli elefanti hanno il senso della famiglia, che si aiutano l’un l’altro. Provano anche affetto per i propri simili? A giudicare dalla scena straziante che i responsabili della riserva di Gunung Rara si sono trovati di fronte parrebbe proprio di sì: il cucciolo non voleva saperne di abbandonare la madre. A rendere più drammatica la scoperta, secondo il capo veterinario Sen Nathan, i dieci animali ritrovati appartenevano, inoltre, tutti allo stesso gruppo familiare: «Avevano un’età compresa tra i 4 e i 20 anni», dice Nathan. Un danno terribile se consideriamo che gli elefanti pigmei — lo spiega il Wwf — sono una specie molto rara: ne rimangono soltanto circa 1.500 nelle foreste pluviali dell’isola del Sud-Est asiatico, la maggior parte nell’area all’interno dei confini della Malaysia. La popolazione sembrerebbe stabile. Ma averne trovati morti così tanti (sette femmine e tre maschi) in così poco tempo suscita allarme. Anche perché non è affatto chiaro se dietro ci sia la mano dell’uomo: possibile, perché spesso gli elefanti sono considerati «pericolosi», per i raccolti e per gli insediamenti umani.
Anche gli elefanti pigmei? A guardarli non danno proprio questa impressione. Alti soltanto fino a poco più di due metri, meno dei «cugini» asiatici (dei quali sono una sottospecie) e ben lontani dalla stazza dei lontani parenti africani, sono chiamati anche «elefanti con il viso da bambino», per i tratti gentili del muso e per il loro atteggiamento schivo: sono animali timidi e di indole mansueta. Le carcasse degli esemplari trovati negli ultimi giorni, comunque, non mostravano ferite d’arma da fuoco e le zanne, il classico bottino dei bracconieri, erano intatte. Un primo esame dei corpi ha fatto pensare all’avvelenamento: «Le condizioni dell’apparato digerente — ha detto ancora Sen Nathan — indicano che con forte probabilità avevano ingerito qualche sostanza altamente tossica che ha provocato emorragie e ulcere». Gli elefanti si sono accasciati nella giungla, uno dopo l’altro nel giro di pochi giorni. «È stato estremamente doloroso ritrovare tutti questi poveri animali — ha raccontato Nathan —. In particolare una femmina che aveva il cucciolo di tre mesi ancora vicino, incapace di accettare la morte della madre».
Resta da stabilire se questo avvelenamento sia stato intenzionale e il ministro dell’Ambiente Masidi Manjun fa una promessa: «Se davvero questi magnifici animali sono stati uccisi di proposito da qualcuno, non sarò contento fino a che il responsabile non sarà portato davanti alla giustizia e avrà pagato per il suo crimine». Intanto, però, l’elefantino, ormai orfano, non potrà che crescere in cattività: la sua giungla non lo ha protetto abbastanza.
Il senso del lutto di un cucciolo
di DANILO MAINARDI. Gli elefanti sono animali intelligenti e sensibili. Imparano a cogliere la differenza tra un animale vivo e uno morto, e protraggono l’attaccamento affettivo per un familiare al di là della sua stessa esistenza. Così almeno sembra, considerando quella sorta di rito funebre che questi pachidermi compiono nei confronti dei loro defunti. Famiglie intere vi partecipano ed è così che normalmente i giovani apprendono i comportamenti rituali di ispezione di ciò che resta dei loro morti. Del tutto diverso è però il caso di questo elefantino, perché l’imprevedibile morte della madre l’ha di fatto colto impreparato. Eccolo dunque acquisire per personale esperienza, attraverso una dolorosa trafila, la nozione di cos’è un essere dopo la morte. Lo scopre immoto, che non risponde ai segnali, che diventa freddo, sempre più freddo. È allora che, pur non conoscendo il concetto, impara che la morte è per sempre. Finché non restano che ossa. E sono proprio queste che tornano a visitare, a ispezionare i gruppi di parenti. E chissà quali pensieri elabora la loro mente straordinaria. Il caso dell’elefante bambino è dunque per vari motivi diverso, ed è anche più triste, perché quel cucciolo sperimenta sconcerto e un dolore vivissimo, senz’altro pari a quello di una madre che perde il proprio figlio. Dolore di cui possiamo farci un’idea leggendo la vivida testimonianza di Joyce Poole dell’Amboseli Elefant Project: «Osservando la sua veglia funebre per la prima volta ebbi fortissima l’impressione che gli elefanti conoscano il lutto. Non potrò mai dimenticare l’espressione degli occhi, della bocca, del portamento delle orecchie, della testa, del corpo. Ogni parte esprimeva dolore».
Corriere della Sera – 30 gennaio 2013