Nei giorni scorsi le cronache romane erano dominate dall’emergenza dei pronto soccorso. Gli ospedali erano pressoché ricolmi, i pochi posti liberi contesi, le ambulanze libere scomparse, 23 erano immobilizzate nei pianali degli ospedali e non potevano muoversi perché le barelle con le quali avevano trasportato i pazienti erano state requisite per far distendere i ricoverati in attesa di un letto.
Proseguiva la ricerca di ambulanze private o della Croce Rossa da affittare a debito. Non restava che lanciare da un nosocomio all’altro appelli telematici di soccorso. Dopo alcune ore, la governatrice dimissionaria annunciava con sollievo che la situazione andava migliorando. Almeno per quel giorno. Allarmi simili erano risuonati sovente negli ultimi mesi, suscitando proteste, interventi d’urgenza, inchieste della magistratura, approfondimenti indignati della stampa. Eppure alla fine ogni grida appariva inutile. Le cause venivano elencate, più o meno le stesse, della volta precedente: in testa le esigenze di risparmi e tagli di fronte all’accumularsi dei debiti e degli sprechi, che hanno colpito, in primis, il numero di posti letto in rapporto al livello dei grandi ospedali qualificati, destinati a pazienti acuti e gravi e non per lungo degenti. Questi pazienti, dopo il primo ricovero d’urgenza, dovrebbero trascorrere un periodo relativamente breve in un reparto di osservazione (un tempo si chiamavano astanterie) dove, una volta accertata a fondo la diagnosi, sia possibile stabilire un percorso terapeutico al di fuori dell’ospedale. I cosiddetti piani di rientro con rigidi obiettivi di risparmio hanno penalizzato anche i letti di questi reparti. Qui si acutizza periodicamente il blocco dei mezzi di soccorso: i pazienti che andrebbero ricoverati nei reparti di cura non trovano posto e restano al Ps e, quando questo è pieno, rimangono su barelle di fortuna o su quelle che li hanno trasportati all’ospedale, in attesa che da qualche parte si apra uno sbocco. Alle volte un’attesa digiomi. Posto in questi termini il problema appare irrisolvibile. Ma sarebbe possibile una diversa organizzazione, basta uno sguardo ai numeri: nel 2011 il servizio 118 ha utilizzato 293 mezzi (ambulanze) per fornire prestazioni con una media di 937 soccorsi giornalieri. Di questi soccorsi il 21%, quasi un quarto, erano codici verdi, cioè stando ai parametri medici non avevano alcun bisogno di ricovero ospedaliero, e sarebbe bastato un intervento territoriale. Inoltre i dati relativi al Lazio mettono in evidenza che nel 2011 su 2.034.454 accessi ai pronto soccorso, solo il 17% è arrivato con ambulanze, mentre l’83% è arrivato con mezzi autonomi e il 71% in base a una propria decisione, ovvero non c’è stata alcuna funzione di filtro da parte di strutture sanitarie (medico di famiglia, specialista, inquadramento territoriale) . Va anche considerato che all’uscita ben il 67% torna a casa senza alcun bisogno di ricovero ospedaliero, il 4% si allontana spontaneamente, il 3,4% non risponde alla chiamata. Appare chiaro che le motivazioni principali del sovraffollamento risiedono nell’utilizzo improprio delle strutture territoriali, nell’insufficiente filtro ambulatoriale dei medici di famiglia, e nelle liste d’attesa per le prestazioni specialistiche ambulatoriali. Inoltre occorre tener presente che anche per i pazienti che necessitano delle strutture di emergenza, molta parte del tempo di attesa al Ps è dovuto alla necessità di eseguire indagini e consulenze specialistiche per arrivare aura diagnosi e a una collocazione del paziente. Se una parte significativa di tale attività fosse svolta in struttura di livello inferiore e comunicata con mezzi telematici alla struttura superiore che funge da Hub si potrebbe ottenere una maggiore fluidità del flusso dei ricoveri necessari, un miglioramento dei tempi di attesa e degli esiti diagnostico terapeutici. Tutto è già stato scritto e molto già sperimentato nelle regioni con una migliore organiz7a7ione sanitaria, si tratta di applicarlo e fado rispettare in quelle ancora disastrate come per l’appunto il Lazio. La Sanità è l’unica scommessa importante da vincere per chi andrà a governarlo.
Mario Pirani – Repubblica – 14 gennaio 2013