Presidente Zaia, a che punto è la trattativa per l’autonomia del Veneto?
«La bozza è scritta. I presupposti per chiudere ci sono tutti. Ma ci sono alcuni punti sui quali registriamo la resistenza di alcune burocrazie».
Ci sono per caso problemi sulle materie dei ministeri guidati dai Cinque Stelle? Gira voce che i nodi siano tre: infrastrutture, sanità, sovrintendenze. È così?
«Non posso dire nulla. Ma troverei strano se accadesse, soprattutto se i Cinque Stelle vogliono salvaguardare i loro voti in questa Regione».
Qual è la scadenza per l’accordo?
«Non abbiamo un termine formale. Ma per me resta quella politica del 15 febbraio».
Stiamo parlando di venerdì prossimo. E se non si dovesse firmare? Il governo cade?
«Il futuro di questo governo lo decide Matteo Salvini. Per quanto mi riguarda se non sarò soddisfatto non firmerò. I cittadini veneti ne trarranno il giudizio che riterranno opportuno».
Può provare a spiegarmi in poche righe perché l’accordo è così importante?
«L’autonomia per un territorio è una vera assunzione di responsabilità. È il principio a cui si ispirava Luigi Einaudi. Don Luigi Sturzo diceva di sognare un Paese unito ma federale».
Una delle obiezioni più comuni a queste intese differenziate è che crea un sistema a macchia di leopardo. Non bastava la complicazione delle Regioni a Statuto speciale?
«Tutti i sistemi federali degni di questo nome concedono autonomia ai propri territori».
Il referendum perso da Matteo Renzi nel 2015 prevedeva di ridare alcune competenze allo Stato, ad esempio quella per evitare che una grande opera pubblica che interessa più Regioni venga bloccata. Con l’autonomia differenziata non si rischia il caos?
«Tutti i sistemi federali riconoscono anche l’esistenza di priorità per lo Stato. Sono il primo a riconoscere una clausola di supremazia, purché la mia Regione possa avere tutta la libertà di agire di cui è capace».
Facciamo un esempio concreto di federalismo differenziato: la sanità. La spesa in Veneto è più bassa che altrove, ma allo stesso tempo i servizi sono migliori. Applicando il metodo dei costi standard però lo scarto fra il Nord e il Sud rischia di allargarsi. Non è così?
«Dirò una cosa forte: non esiste una distribuzione equa del benessere. Il benessere lo si costruisce con le scelte concrete. Nella mia Regione i pasti in ospedale costano fra gli otto e i nove euro l’uno. In certe Regioni del Sud la cifra è dieci volte tanto, eppure si tratta di realtà nelle quali gli ammalati per essere curati al meglio emigrano. A lei pare giusto che proprio perché virtuoso il mio territorio ottenga meno di altri?»
Le faccio un altro esempio: la scuola. Oggi le risorse le gestisce lo Stato, ma più di nove euro su dieci servono a pagare gli stipendi agli insegnanti. Cosa potrà cambiare dal giorno in cui sarà il Veneto ad occuparsene?
«Mi perdoni l’obiezione: ma se l’aver affidato la sanità alle Regioni ha contribuito a costruire delle eccellenze, perché ciò non deve avvenire anche con la scuola? Se la mia Regione può occuparsi dei malati, perché non può avere la stessa opportunità con i ragazzi?»
Sembra di essere tornati indietro di una decina d’anni. Queste erano le parole d’ordine della Lega di Umberto Bossi. Quell’obiettivo non è mai stato realizzato, nonostante le riforme, realizzate e non. La riforma del Titolo quinto approvata dal centrosinistra poi ha creato più problemi di quanti non ne abbia risolti. Come mai?
«Perché non si è mai andati fino in fondo con l’assuzione di responsabilità per gli enti locali. I dati ci dicono che nella pubblica amministrazione la scarsa efficienza costa trenta miliardi di sprechi l’anno. L’iniziativa nostra e delle altre due Regioni (Lombardia ed Emilia, ndr) costringe i governatori – tutti quanti – a guardare in faccia la realtà. È questo il tesoro che hanno al Sud, e nessuno lo vuole vedere».
Insomma, lei rivendica il principio secondo il quale chi è più bravo ottiene di più. Ma dal punto di vista fiscale non cambia nulla: non gestite le entrate – fatte salve quelle che arrivano dall’Irap e necessarie a finanziare la sanità – bensì solo le spese.
«Si tratta di applicare fino in fondo il principio del buon padre di famiglia e di creare le condizioni perché le risorse vengano amministrate al meglio. Da tutti».
Twitter @alexbarbera
La Stampa