Con lo scatto deciso di dicembre la manifattura italiana realizza la miglior performance dal 2010….Pare trascorso un secolo da quel racconto e invece si tratta solo di 12 mesi. Periodo breve e tuttavia sufficiente per produrre sull’industria nazionale una narrazione diametralmente opposta, costruita non più sulla crescita bensì sull’arretramento, non sul balzo degli ordini ma sulla loro stagnazione. Il tutto tradotto in perdita progressiva dello slancio che aveva portato l’indice a nuovi massimi, decalage approfondito nel corso del 2018 e che ora si trasforma in decisa riduzione. A dicembre l’output manifatturiero è in calo congiunturale (-0,8%) per il quarto mese consecutivo, frenata che su base annua vale il 5,5%, peggior risultato da dicembre 2012. A salvare la media annua – precisa l’Istat – è solo l’effetto di trascinamento precedente, perché in effetti la produzione è scesa in ciascuno dei quattro trimestri, lasciando come bilancio finale un magro +0,8%, il dato peggiore dal 2014, meno di un quarto rispetto alla scintillante performance 2017. Risultato preoccupante non solo in termini assoluti ma soprattutto perché esito di un arretramento corale: dei 16 settori monitorati dall’Istat non uno si salva dalla debacle. In difficoltà in particolare l’auto, un calo del 16,6% che porta il bilancio 2018 in rosso di quasi sei punti. A dare il senso delle difficoltà è il comparto dei macchinari, diretto beneficiario del piano Industria 4.0, che ora inizia a sentire in presa diretta il minor vigore degli investimenti: a dicembre cede il 3,2%, ed è comunque il miglior risultato tra tutte le aree manifatturiere. Cer, uno dei tre organismi di previsione del panel dell’Ufficio parlamentare di bilancio, alla luce dei dati riduce le stime sul Pil del primo trimestre: -0,3 tendenziale, -0,1% congiunturale, sarebbe il terzo calo consecutivo. Previsioni negative anche dall’ufficio studi di Intesa Sanpaolo, che inoltre non vede dagli indici anticipatori i segnali di una possibile riaccelerazione nel secondo semestre.
Anche se non con questa intensità, la debolezza è comunque avvertita in altri paesi europei, a partire dalla Germania. Alle prese con una drastica revisione al ribasso delle stime di crescita (dall’1,8 all’1,1% nel 2019) e con dati recenti di produzione ed export in netta discesa, mentre le importazioni presentano una crescita zero. Valori non sorprendenti, tuttavia, osservando quanto accade all’auto, prima industria nazionale, penalizzata dalla minore domanda estera ma anche della revisione delle norme di omologazione: tra novembre e gennaio la produzione è crollata del 20%, si tratta di quasi 300mila vetture in meno. Che hanno già lasciato il segno (si veda il Sole 24 Ore del 12 gennaio) sui bilanci di centinaia di componentisti italiani, rallentamento che gli ultimi dati statistici iniziano a registrare. Numeri poco gradevoli e tuttavia per nulla inattesi, alla luce del quadro congiunturale visibile da mesi. E ben sintetizzato dall’indicatore sulla fiducia delle imprese, in calo costante dallo scorso luglio. Trend preoccupante, tanto da prospettare, scrive l’Istat, «serie difficoltà di tenuta dei livelli di attività economica». Alla congiuntura internazionale non favorevole – spiega il direttore generale di Confindustria Marcella Panucci – si aggiunge «una profonda crisi di fiducia in Italia, e questo purtroppo è il risultato. Siamo estremamente preoccupati».
La preoccupazione si riflette anche sugli indicatori finanziari. Lo spread BTp-Bund sul tratto decennale ha aggiornato i massimi da metà dicembre spingendosi fino a 295 punti base (per chiudere a 290). A questo allargamento hanno contribuito soprattutto le vendite di BTp (la peggiore settimana da ottobre), il cui rendimento ha superato intraday la soglia del 3%, ma anche i contestuali acquisti di Bund – il cui tasso (0,07%) ormai è nuovamente prossimo allo “0” come non accadeva da novembre 2016 – considerato un bene rifugio nel momento in cui sui mercati globali è tornata l’avversione al rischio. La tensione sulla carta italiana si percepisce ancor di più osservando un altro spread, quello tra i BTp a 10 e 2 anni, che misura più in profondità la preoccupazione degli investitori sulla sostenibiltà del debito pubblico a breve. Il rendimento dei titoli a 2 anni è balzato allo 0,76% aumentando di 50 punti base in appena cinque sedute. La curva 10-2 anni si è appiattita a 223 punti rispetto ai 243 di metà gennaio. Siamo lontani dai livelli di massima preoccupazione (inversione della curva) ma certo il quadro è peggiorato e potrebbe penalizzare il Tesoro nel collocamento di BTp a 3 e 7 anni in programma mercoledì 13 febbraio.
Il Sole 24 Ore
Vito Lops e Luca Orlando