Il pranzo di Natale? Non esiste più. O, almeno, non esiste nell’accezione che conoscevamo fino a poco tempo fa. Quando sulla tavola arrivava un’abbondanza mai vista. Eredità, questa, di un Ottocento che aveva insegnato anche a noi italiani ad aspettare con ansia questi giorni di festa per poter assaggiare cibi che ci erano altrimenti negati. Vuoi perché troppo cari.
Vuoi perché destinati a momenti speciali. Mentre è stato nel Medioevo che abbiamo imparato a mettere in tavola i banchetti veri. Quelli che cominciavano con frutta e insalate. E poi biscotti, formaggi, confetti, confetture. Tutto per stuzzicare la fame dei commensali. E tutto con un unico comun denominatore, come spiega lo storico Alberto Capatti: «Le spezie, ovunque. E lo zucchero considerato, tra queste, il pezzo forte». Piatti che in qualche modo ci siamo portati fino a oggi? «Forse qualche torta. E le paste. I maccheroni… Ma sia chiaro: a quei tempi non esisteva il pranzo di Natale nell’accezione ecclesiale. Esistevano i banchetti. Quelli lussuosi e pantagruelici. Il Natale, come lo ricordiamo noi, è arrivato dopo».
Eppure, andando a spulciare, qualche piatto che ricorda la nostra tavola natalizia si trova. Come la panatella con l’uovo, che messa nel brodo, da piatto dei poveri di allora, assomiglia molto ai nostri passatelli. Oppure gli arrosti: lussuosi, farciti, accompagnati da verdure che rosolate, ancora oggi, fanno pensare alla festa.
Ma cosa cerchiamo noi, davvero, nel cibo di Natale? Niko Romito, chef tre stelle con il Ristorante Reale , racconta che pur facendo sperimentazione tutto l’anno, in questi giorni si ferma: «Le persone cercano ciò che conoscono. Ciò che le rassicura: la tradizione. Senza se e senza ma. Anche io, nel mio ristorante, propongo piatti abruzzesi antichi. Come il Brodo delle feste: molto tradizionale, fatto con vitello e pollo. E poi con le polpettine di carne, il pane fritto, le crespelle, acqua e farina. Un’altra pietanza che amo proporre è l’arrosto classico, di agnello, servito con una salsa al rosmarino e la purea di carote. Infine il dolce, che è il Confetto: uso gli ingredienti del confetto e lo porto in tavola in maniera diversa. Ecco, queste sono le mie scelte… Per me sarebbe impensabile scrivere un’altra storia. Ma me lo chiedono proprio i clienti: quel giorno, soltanto quel giorno, vogliono essere rassicurati e sapere che nulla è cambiato. Che ritroveranno ciò che conoscono».
Un meccanismo, spiega Augusta Pozzi, psicoterapeuta, che è semplice da decodificare: «Anche i miei pazienti ricercano nel Natale momenti di pace dagli eccessi, dall’incerto, dalla tempesta esteriore. Sono a caccia di punti fermi. Per ritrovarsi. Anche a tavola. Anche in quel brodo di pollo uguale a quello della mamma, della nonna, della bisnonna. Si tratta di una tradizione interiore, alla quale difficilmente si rinuncia». Il Natale che viviamo, dunque, è sempre più uguale. E sempre più piccolo. Nel senso delle porzioni. E delle pietanze che vengono apparecchiate. Non sopravvivono visioni pantagrueliche da banchetto dei signorotti, con piatti elaborati e stoviglie pretenziose che affollano le tovaglie. Ma siamo sempre più affini a piccole tavole dove convivono ricordi, sapori e gusti.
E (inutile ricordarlo) piatti della tradizione. Perché anche in una galantina di pollo, nata proprio durante il Rinascimento a Bologna (probabilmente ispirandosi alla versione francese della ballotine , con carne d’anatra), c’è una storia. Un morso che sa di antico e che però porta anche un ricordo. E poi, come ha scritto Aleksandra Crapanzano, food editor del Wall Street Journal , persino in un pudding di Natale possiamo ritrovare un pezzo di noi stessi. Consapevoli che se per un anno decideremo invece di rifarlo più light (cosa sempre più diffusa) , e quindi meno simile a quello di dickensiana memoria, saremo lo stesso capaci di ritrovarci. Perché è sufficiente l’assaggio. Quello, siamo noi.
Il Corriere della Sera – 21 dicembre 2016