Daniele Marini*. L’approssimarsi della fine dell’anno, e l’aprirsi del nuovo, induce a fare bilanci, a soppesare quanto è avvenuto e prefigurare ciò che si attende. Veniamo da diversi anni di difficoltà economica e da instabilità politica, non ultimo quello generato dall’esito referendario. Dal 2008 abbiamo avuto cinque governi (Berlusconi, Monti, Letta, Renzi e ora Gentiloni), in media più di un esecutivo a biennio.
È evidente che con un simile incedere qualsiasi attività politica e azione riformatrice subisca uno «stop and go» continuo. Il tentativo di offrire un disegno coerente al Paese e, quindi, una direzione da perseguire diventa come la tela di Penelope: ciò che si tesse di giorno, è dipanato il giorno successivo.
Così, l’emergenza è diventata la nostra normalità. Viviamo una condizione di continua discontinuità, alimentando fra gli operatori economici e nella popolazione un orientamento di adattamento e prudenziale. Perché nell’incertezza è meglio muoversi con cautela. Esattamente il contrario di ciò che servirebbe in un’epoca come l’attuale dove la velocità e un disegno strategico costituiscono i fattori determinanti per una ripresa di competitività del sistema-paese. Ciò nonostante, seppure con dati economici altalenanti, il Pil è rientrato leggermente in campo positivo e, nonostante tutto, l’azione del governo Renzi qualche esito positivo l’ha portato. Tuttavia, la svolta, la ripresa più volte evocata non arriva. Continuiamo a procedere per piccoli passi, mentre altre zone del globo corrono a velocità elevate. E in questa doppia velocità, nella sindrome dello «zero-virgola», maturano condizioni sociali ed economiche progressivamente divergenti: aumentano i divari fra chi è in grado di affrontare le difficoltà e chi, invece, vede perdere progressivamente le proprie risorse, sospinto ai margini.
È questo il quadro generale che emerge dall’ultima rilevazione sugli italiani di Community Media Research, in collaborazione con Intesa Sanpaolo, per La Stampa. Facendo un bilancio su come sono andate le cose nel 2016, mediamente il 44,6% non ha percepito cambiamenti sostanziali. Per contro, una quota analoga (42,6%) denuncia un peggioramento, mentre solo un decimo (12,8%) ha vissuto un miglioramento. La media nasconde alcune diversificazioni. Gli aspetti che non hanno avuto scostamenti particolari sono la sicurezza personale (56,8%), il reddito percepito (53,7%) e la lotta all’evasione fiscale (51,2%). Le dimensioni che più di altre, invece, sono avvertite peggiorate rinviano alla dimensione del mondo politico (politica italiana: 57,7%; corruzione politica: 47,9%) e della situazione economica (economia italiana: 47,9%; pressione fiscale: 43,4%). L’unico fattore che ottiene una valutazione positiva è la credibilità internazionale dell’Italia, ritenuta migliorata dal 32,8% degli italiani. In sintesi, la percezione della popolazione è che nel 2016 l’Italia abbia accresciuto la sua autorevolezza nelle relazioni con partner esteri, sia rimasta perlopiù stabile nel reddito individuale e nella sicurezza, ma sia peggiorata la situazione economica e soprattutto politica.
Cosa ci riserverà il 2017, come andranno le cose il prossimo anno? In generale, emerge una visione pragmatica (o rassegnata?). Quanti attendono un miglioramento non si discostano dalla valutazione sul 2016. Poco più di un decimo (13,6%) auspica vi sarà un cambiamento positivo, in particolare per quello che riguarda l’economia del nostro paese (21,7%) e migliorerà ulteriormente la nostra credibilità sul piano internazionale (20,7%). Aumentano, invece, quanti ritengono che le condizioni generali rimarranno tutto sommato stabili (50,6%), soprattutto per ciò che riguarda la sicurezza personale (65,6%), il proprio reddito (58,9%) e la corruzione politica (55,1%). Un terzo degli italiani, però, prefigura un ulteriore peggioramento (35,8%), specialmente sul versante della politica italiana (51,0%) e della nostra economia (38,9%). Si potrebbe sostenere che per il futuro prossimo la maggior parte degli italiani intravede (e auspica) scenari «non peggiorativi», considerato che le condizioni generali (politiche ed economiche) sono percepite ancora fortemente critiche.
Unendo le opinioni espresse sul bilancio del 2016 con quelle delle previsioni per il 2017 è possibile individuare la mobilità di opinione degli intervistati fra un anno e l’altro. In questo modo otteniamo tre gruppi. Il primo, e più rilevante quantitativamente, è degli italiani che non rilevano discontinuità fra i due anni considerati. Il 52,7% non muta la propria valutazione e sottolinea come il nostro paese resti ancorato alla sindrome dello «zero-virgola», alla «stabilità»: il sentore è di un’Italia vischiosa. Ed è interessante osservare come sia soprattutto il ceto medio-alto (68,4%), composto da liberi professionisti e dirigenti, a rimarcare maggiormente quest’orientamento. Il secondo gruppo intravede una recrudescenza ulteriore delle condizioni, un «degradamento»: si tratta di una quota cospicua (40,0%) annidata soprattutto nei ceti medio-bassi (44,2%, lavoratori manuali, pensionati) e bassi (61,6%, operai, disoccupati). Il terzo gruppo, costituito da una quota largamente minoritaria (7,3%), all’opposto avverte un miglioramento e una crescita fra i due anni, concentrato nei ceti medio-alti (9,3%) e, soprattutto, alti (35,8%, imprenditori, manager).
A cavallo fra i due anni prevale negli italiani una pre-visione priva di scostamenti, quasi piatta: un misto di adattamento e disincanto, di cautela e rassegnazione. Pochi scorgono una crescita, mentre molti fra i ceti medio-bassi e bassi intravedono una progressiva erosione delle loro opportunità, anziché la possibilità di una mobilità ascendente. Ed è questa polarizzazione nelle condizioni, come certificato dall’Istat e dall’esito del voto referendario, a muovere il malessere. Coesione e sviluppo dovranno essere le parole chiave dell’agenda per il futuro dell’Italia.
*Università di Padova
La Stampa – 19 dicembre 2016