Dario Dongo. Ci si può sempre fidare di un prodotto “vegan” o “meat souding”? Dopo un’analisi critica sulla profanazione dei criteri tradizionali di produzione di panettone e pandoro, è giunta l’ora di affrontare un tema forse ancor più critico in quanto non limitato alle ricorrenze natalizie. È il fenomeno riconducibile a “meat sounding”, “vegetarian” e “vegan”. Variazioni di stile su una linea di informazione che è ancora confusa e merita appositi chiarimenti normativi, come di recente sollecitato in un’interrogazione del Parlamento alla Commissione europea.
Quando il marketing detta le regole, se ne vedono di tutti i colori: non potrebbe essere altrimenti, poiché i consumatori sono la leva indipendente del mercato e le loro richieste si orientano nelle direzioni più varie, dal “gastro-eccentrico” al “salutistico”, passando per il “senza” (“gluten-free”, “senza olio di palma”, “OGM-free”, etc.). Ma al di là dei marchi commerciali e delle creative raffigurazioni, le denominazioni di vendita devono essere chiare e cristalline.
“La denominazione dell’alimento è la sua denominazione legale. In mancanza di questa, la denominazione dell’alimento è la sua denominazione usuale; ove non esista o non sia utilizzata una denominazione usuale, è fornita una denominazione descrittiva’ (reg. UE 1169/11, articolo 17.1). Questo funziona quando le regole di settore (europee o nazionali) descrivono in appositi disciplinari i metodi di lavorazione e le caratteristiche essenziali dei prodotti, affinché essi possano venire designati con determinati nomi. Al preciso scopo di prevenire ogni possibile fraintendimento dei consumatori sulla natura degli alimenti loro offerti. Come avviene, ad esempio, nell’intero ambito lattiero-caseario (grazie al reg. UE n. 1308/2013).
Il problema emerge in tutti quei casi nei quali, viceversa, manchi una “denominazione legale” a cui riferirsi per l’esatta distinzione delle referenze in vendita e la salvaguardia sia delle filiere tradizionali, sia dei consumatori. Lo osserviamo con crescente evidenza nei prodotti alimentari a base vegetale che vengono proposti come adatti a vegetariani e vegani e spesso richiamano i nomi caratteristici (1) delle preparazioni a base di carne (c.d. “meat sounding”). O ancora, quando a tali ultimi nomi siano riferiti alimenti che hanno ben poco a che fare con le tradizioni evocate (come è il caso della “mortadella” realizzata con carni avicole). Insomma, ci si può davvero fidare? Forse no, non sempre. Così il consumatore deve cimentarsi allo studio delle etichette, esaminare il dettaglio degli ingredienti e affrontare i dilemmi. “Gelatina alimentare”, “mono e digliceridi degli acidi grassi”, additivi citati con la sola sigla “E..” possono pure avere origine animale, e chi garantisce che non sia così? In tutto ciò il consumatore, come un segugio dritto alla meta, non deve lasciarsi distrarre dai pur suggestivi richiami grafici e pubblicitari, immagini e nomi che possono facilmente condurre fuori pista. L’apice è stato raggiunto dalla dicitura “Nduja vegana” (!). Ma come è possibile, e perché?
I principi generali di trasparenza e chiarezza delle notizie per il consumatore medio, è evidente, non bastano. Poiché la loro interpretazione è flessibile e varia di Paese in Paese, di autorità in autorità. E allora, bisogna definire in modo inequivoco cosa si intende per vegetariano e vegano, da un lato, e attribuire nomi legali alla vasta gamma di carni e preparazioni di carne che caratterizzano la tradizione produttiva e gastronomica italiana. Sotto tale ultimo aspetto è intervenuta l’interrogazione (2) degli eurodeputati Paolo De Castro e Giovanni La Via al Commissario europeo Vytenis Andriukaitis. Un’interrogazione che si auspica avrà il doveroso seguito, per porre fine a innumerevoli casi di pubblicità ingannevole e concorrenza sleale.
Per maggiori informazioni, si vedano gli articoli relativi a meat sounding e alla disciplina – per ora, solo volontaria – di cibi per vegetariani e vegani.
Il Fatto alimentare – 18 dicembre 2016