Paolo Russo. Tra liste d’attesa che arrivano a due anni e ticket sempre più salati gli italiani sono oramai in fuga dal servizio sanitario pubblico. Almeno per le prestazioni a più basso costo, come esami del sangue o ecografie, dove il privato formato low cost ha preso il posto di Aziende sanitarie locali e ospedali. Questo è quello che raccontano le 21mila segnalazioni pervenute in un anno al Tribunale dei diritti del malato (Tdm), che ha raccolto il tutto nel suo Rapporto denominato “Pit salute”.
Sarà la crisi che non molla ma ormai il 30 per cento degli assistiti dichiara di non farcela più a pagare i ticket per visite e analisi. Solo l’anno prima erano un terzo di meno. E poi ci sono le liste d’attesa sempre infinite a frapporsi tra il cittadino e il servizio pubblico sanitario. Quelle per interventi chirurgici e viste specialistiche poi sono peggiorate: in media due anni per rimuovere una protesi o correggere un alluce valgo (la deformazione del piede in cui si allontana la testa del primo metatarso dalle altre, ndr), 20 mesi per un intervento di chirurgia maxillo-facciale, 18 mesi per ricostruire una mammella operata di tumore.
Non è finita. Per una visita neurologica si aspetta un anno, nove mesi per farsi vedere da un oncologo o un oculista, otto mesi per avere udienza da un cardiologo. Da qui il ricorso alle visite private dagli stessi medici indisponibili nel pubblico. Una situazione che il Tribunale dei diritti del malato chiede di correggere vietando l’attività libero professionale dei medici pubblici quando le liste d’attesa non rispettano i tempi massimi previsti. Un po’ meglio vanno le attese medie per gli esami. Ma stiamo parlando sempre di un anno per una risonanza, 15 mesi per una mammografia, 11 per un ecodoppler, dieci per una Tac.
E poi c’è la piaga irrisolta delle lunghe attese nei pronto soccorso che peggiorano anziché migliorare. Tra chi ha fatto qualche brutta esperienza in ospedale sale dal 50 al 63% chi ha avuto problemi proprio in qualche pronto soccorso.
Un utente su quattro denuncia invece le cattive condizioni delle strutture sanitarie, legate soprattutto al mal funzionamento dei macchinari, spesso obsoleti, e all’igiene.
Qualche problema in più anche nel rapporto con i medici di famiglia, che avrebbero rifiutato più che in passato di prescrivere farmaci ed analisi. Due le versioni addotte. «Per ridurre lo spreco delle prestazioni inappropriate», dicono gli amministratori della nostra sanità. «Per non incorrere in sanzioni da parte di chi vuol risparmiare», lamentano invece i dottori, stretti tra l’incudine di chi deve far quadrare i conti e il martello degli assistiti.
La Stampa – 16 dicembre 2016