E ora? Siglato l’accordo (ieri è arrivata anche la firma della Confsal) e consumato l’entusiasmo condiviso di Governo e confederali, ora si tratta di avviare la traduzione pratica degli obiettivi che devono portare al rinnovo dei contratti e alle nuove regole sul pubblico impiego.
In questo quadro andrà sciolto anche uno dei primi temi di discussione fra governo e sindacati post-accordo: quello dei costi per sterilizzare l’effetto aumenti sugli 80 euro. Oggi il bonus arriva nelle buste paga di 7-800 mila dipendenti pubblici, e secondo i primi calcoli sono circa 200mila le persone che si troverebbero a dover rinunciare una volta realizzati gli aumenti contrattuali. Per evitare il dare-avere, secondo le stime governative elaborate in base ai numeri forniti dall’Aran, servono 150-180 milioni, mentre dai sindacati arrivano indicazioni che puntano fino a 400 milioni di euro. Per il numero definitivo bisognerà tener conto di due fattori. Gli 80 euro sono netti, ma per trasformarli in una componente ordinaria della busta paga occorre calcolare il costo lordo, caricato da fisco e contributi. Chi ha un reddito fra 24 e 26mila euro, cioè la prima fascia a rischio di perdere il bonus dopo gli aumenti, riceve oggi meno di 80 euro, secondo il decalage disegnato dal meccanismo approvato nel 2014.
Sui tempi, più che sui modi, per passare dalle intenzioni dell’accordo ai fatti di decreti e contratti pesa poi l’incognita sugli scossoni politici che possono arrivare dal referendum, ma a orientare la pratica c’è una catena sicura di cause ed effetti. La riforma del pubblico impiego non si può abbandonare, perché senza questo passaggio diventa impossibile rinnovare i contratti e tutto il castello cade. Ma la riforma, dopo la sentenza 251 della Consulta, non si può fare senza l’«intesa» con le Regioni.
Proprio verso le autonomie, quindi, puntano i primi impegni in agenda. Prima di tutto bisogna blindare i decreti attuativi della riforma Madia sui licenziamenti in 30 giorni degli assenteisti, che il governo punta a portare in Conferenza il 15 dicembre insieme a quelli su partecipate e dirigenti sanitari. Il confronto con gli enti territoriali (nella Stato-Regioni oppure nell’Unificata, dove ci sono anche Comuni e Province, a seconda dei casi) metterebbe al riparo da ricorsi i decreti attuativi già emanati, a patto ovviamente che si trovi l’«intesa». Certo, è facile prevedere che alcune regioni, Veneto in primis, faranno mancare il loro via libera all’unanimità necessaria per superare lo scoglio, ma le regole permettono un’alternativa. Si tratta della cosiddetta «intesa debole», regolata dalla legge 131/2003, che dopo 30 giorni permette al Governo di andare avanti comunque motivando le ragioni del mancato accordo. Per non sforare i tempi della delega, il testo unico dovrà arrivare sui tavoli del consiglio dei ministri entro febbraio.
Ma il confronto con Regioni ed enti locali, in questo caso preventivo, serve anche per liberare la strada al testo unico del pubblico impiego, indispensabile per rivedere la legge Brunetta e ridare alla contrattazione le competenze (incentivi, produttività, integrativi e così via) promesse dall’accordo di mercoledì. Non solo: gli «85 euro medi» per gli 1,2 milioni di dipendenti in organico a Regioni, sanità ed enti locali vanno finanziati con i bilanci autonomi, per cui l’avvio del confronto con gli amministratori è indispensabile anche per placare qualche agitazione che inizia a serpeggiare.
La tappa successiva è rappresentata dai quattro atti di indirizzo, con cui la Funzione pubblica indicherà le regole dei contratti ai comitati di settore per Pa centrale, scuola-università, sanità ed enti territoriali. Lì saranno precisati i criteri della «piramide rovesciata», cioè del meccanismo che chiede di aumentare di più le buste paga oggi più leggere. Le cifre effettive, però, andranno scritte nei contratti che usciranno dalle trattative all’Aran, perché ogni settore della Pa ha oggi cifre di partenza diverse. La distribuzione degli aumenti dovrà legarsi agli allineamenti dettati dal fatto che gli 11 comparti in cui la Pa è stata divisa fino a ieri confluiranno nei quattro contratti nazionali previsti dall’accordo firmato ad aprile, in un incrocio di variabili non facile da sciogliere. «Finalmente si apre il percorso di confronto – spiega il presidente dell’Aran Sergio Gasparrini – ma dopo 7 anni di blocco il lavoro da fare è molto». Ha ragione.
Il Sole 24 Ore – 2 dicembre 2016