Dopo la botta tirata al premier Matteo Renzi e al governo con la sentenza della Corte costituzionale sulla riforma Madia, la maggioranza guidata in Regione da Luca Zaia prova a fare un altro sgambetto al fronte del «Sì» e approva in consiglio, con la sponda del Movimento Cinque Stelle, una risoluzione che a meno di una settimana dal voto non soltanto schiera il Veneto a favore del «No» ma impegna pure la giunta, con largo anticipo, a trascinare di nuovo di fronte alla Consulta il governo nel caso in cui il 4 dicembre dovessero prevalere i favorevoli alla riforma.
Il voto è arrivato poco prima delle 18, dopo tre ore di dibattito consumatesi secondo le previsioni: raffica di interventi, tutti col piglio del comizio, tutti assolutamente inutili se l’obiettivo era quello di convincere i dirimpettai a cambiare idea. A metà dibattito il Pd ha abbandonato l’aula per protesta contro una discussione «assolutamente strumentale, tesa a far passare l’idea, lontano da qui, che il Veneto sia tutto schierato per il “No” quando invece la regione è spaccata a metà» (resta da chiarire il giallo del voto – per giunta a favore della risoluzione leghista – di Andrea Zanoni: probabilmente qualcuno ha utilizzato la sua scheda magnetica, a sua insaputa). Al momento del voto non erano presenti neppure i consiglieri «tosiani» che si sono districati così dall’imbarazzo di dover sconfessare, loro contrari alla riforma, quel Flavio Tosi che anche venerdì è stato pubblicamente elogiato da Renzi come uno dei volti migliori della campagna per il «Sì». La risoluzione è quindi passata grazie all’ormai non più inedito asse Lega (con Forza Italia, Fratelli d’Italia e gli indipendentisti) – Movimento Cinque Stelle, tenuto insieme dal collante dell’anti renzismo. Unico voto contrario, quello dello stoico Pietro Dalla Libera di Veneto civico, lista a sostegno della Moretti, rimasto in aula in totale solitudine a difendere con le unghie le ragioni del «Sì». Assente Zaia.
Dunque il consiglio regionale esprime «il suo più convinto “No” alla legge di modifica della Costituzione» e «viva preoccupazione per le negative conseguenze che una eventuale conferma di questa legge causerebbe sul piano istituzionale, in quanto fortemente lesivo delle autonomie locali, e su quello applicativo perché aumenterebbe l’inefficienza e la conflittualità tra potere centrale e le amministrazioni locali a danno di tutti i cittadini». Inoltre, l’assemblea invita la giunta «a valutare i profili di incostituzionalità e dunque di depositare presso la cancelleria della Corte costituzionale un ricorso avverso la legge, poiché in contrasto con il principio fondamentale previsto all’articolo 5 della Costituzione». Quello che recita: «La Repubblica, una e indivisibile…», che certo sottolineato dai leghisti, furono secessionisti, un po’ fa riflettere.
Al risultato, come si diceva, si è arrivati dopo lungo dibattito, in qualche caso non proprio edificante, come quando Stefano Valdegamberi, preso dalla consueta foga, ha dato ai consiglieri del Pd degli «ignavi» e dei «venduti» (aggiungendo: «Volete fare qui gli inceneritori!»). Scontate le proteste dei dem , con Claudio Sinigaglia che è sbottato: «Stiamo scivolando nel ridicolo, di questo passo mi aspetto che alla prossima campagna elettorale proviate a far passare una risoluzione in cui il consiglio invita a votare per la Lega», mentre Bruno Pigozzo invitava i suoi a prendere la porta citando Gramsci: «Il pessimismo dell’intelligenza mi dice di restare qui ma l’ottimismo della volontà mi convince a lasciare l’aula». Prima era toccato alla capogruppo Alessandra Moretti provare a rintuzzare gli attacchi dei leghisti (è stato anche distribuito un contro-documento, non condiviso da Piero Ruzzante della minoranza Pd), battendo soprattutto sui tasti relativi alle norme che impattano sulla vita in Regione, dal dimezzamento delle indennità per i consiglieri («Mi chiedo come i Cinque Stelle possano votare contro») ai costi standard («Ma i leghisti non insistevano su questo?»), dall’autonomia rafforzata per le Regioni virtuose al bisogno d’essere presenti a Roma, tramite il nuovo Senato, «perché lontani da Roma non si conta un tubo».
Va da sé che la maggioranza è andata avanti come un caterpillar. «Ridurrete il Veneto come la Calabria e il nostro turismo sarà gestito come Pompei, così ci togliete anche quel poco di autonomia che avevamo» ha esordito il primo firmatario Nicola Finco (Lega) che ha poi lamentato come la riduzione dei costi della politica già operata in Regione «stia minando l’attività dei gruppi». Per Sergio Berlato (Fdi) «il soggetto di Firenze» sarebbe solo l’avanguardia dei «poteri forti che in questi giorni provano a fare terrorismo psicologico» mentre l’indipendentista Antonio Guadagnini ha denunciato «la scandalosa occupazione dei media». Elena Donazzan di Forza Italia, tra i pochi a stare nel merito del quesito, ha avvertito che si potrebbero avere «gravi ripercussioni sulla scuola e il lavoro, materie in cui la nostra Regione ha dimostrato di saper fare bene».
Marco Bonet – IL Corriere del Veneto – 29 novembre 2016