A infittire l’agenda politica della settimana che porta al referendum costituzionale interviene anche il tentativo di accordo politico che Governo e sindacati stanno provando a trovare sul rinnovo del contratto degli statali. L’appuntamento è per mercoledì prossimo, quando al nuovo incontro fra Esecutivo e sindacati si capiranno le prospettive per le buste paga dei tre milioni di dipendenti pubblici: il Governo punta ad arrivare all’intesa prima delle urne, anche per avere un altro argomento da spendere negli ultimi giorni della contesa, ma per giungere al traguardo ci sono due ostacoli da superare. O li si scavalca ora, o si rimanda il tutto allo scenario che uscirà dal voto.
Il primo nodo, ovviamente, è quello dei soldi, riassumibile nella parola d’ordine degli «85 euro». La cifra, ha chiarito venerdì scorso il titolare dell’Economia Pier Carlo Padoan ribadendo la linea già tracciata dalla ministra per la Pa Marianna Madia, indica gli «aumenti medi a regime», cioè al 2018, ed è calcolata anche con l’obiettivo di non allontanare troppo le dinamiche dei salari pubblici da quelle vissute con i rinnovi nei principali comparti del privato. Per i sindacati, anche se con articolazioni differenti nelle posizioni delle diverse sigle, gli 85 euro indicherebbero la base minima dei ritocchi. Un’ipotesi, questa, che naturalmente complica la già difficile ricerca dei finanziamenti necessari a tradurre in pratica queste indicazioni, anche perché rende difficile calcolare in modo fondato l’entità stessa delle coperture necessarie.
L’intenzione del governo, più volte ribadita dalla stessa ministra Madia, è poi quella di concentrare gli aumenti sulle fasce di reddito più basse, con una sorta di articolazione dei ritocchi inversamente proporzionale ai livelli di retribuzione attuale. Un meccanismo, quello ipotizzato dalla Funzione pubblica, che nell’ottica del Governo “sfiderebbe” i sindacati a impegnarsi nella tutela dei lavoratori deboli sul piano economico più che nella battaglia politica con l’Esecutivo (nel mirino di questa riflessione governativa c’è soprattutto la Cgil).
Oltre alla politica, però, c’è la matematica, che solleva questioni non da poco. I fondi messi a disposizione dalla legge di bilancio aprono per il prossimo anno a un aumento medio intorno ai 40 euro, mentre per il 2018 i numeri sono ancora tutti da chiarire perché dipendono anche dal costo del «riordino delle carriere» promesso alle Forze dell’ordine e dal nuovo piano di assunzioni nella Pa.
In questa fase, comunque, si tratterebbe di mettere nero su bianco un accordo politico, un po’ come accaduto sulle pensioni prima della manovra, in cui il Governo si impegna a trovare i fondi per arrivare appunto agli 85 euro medi: impegno non da poco, visto che per il 2018 Roma ha promesso all’Europa un aggiustamento strutturale da 8,5 miliardi (cinque decimali di Pil) sui saldi di finanza pubblica.
Sul tavolo ci sono poi le regole per la distribuzione dei premi, oggi “congelate” dalle griglie rigide scritte nel 2009 dalla riforma Brunetta e mai applicate. Qui le idee di sindacati e Governo sembrano più vicine, perché entrambi puntano sulla costruzione di regole più flessibili, evitando l’obbligo di azzerare del tutto i “premi” per il 25% dei dipendenti, e sulla restituzione del tema alla contrattazione, lasciando alla legge solo il compito di fissare principi generali. Anche su questo punto, comunque, un conto sono le intenzioni e un altro le regole: e le chance di successo di questo passaggio dipendono anche da quanto è condivisa fra i soggetti al tavolo la volontà di arrivare a un’intesa prima del referendum.
Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore – 28 novembre 2016