La popolazione mondiale passerà dagli attuali 7,3 miliardi a circa 9,7 miliardi di abitanti nel 2050. Allora il mondo ospiterà oltre due miliardi in più di persone da sfamare. E per farlo sarà necessario, secondo gli standard alimentari di oggi, aumentare la produzione agricola di almeno il 70%. «Una strada impossibile da percorrere se non mettendo a serio rischio l’ecosistema — commenta Stefano Zamagni, professore di economia politica internazionale della Johns Hopkins University.
«I sistemi intensivi di coltura delle terre stanno infatti accelerando la deforestazione, così come il cambiamento climatico favorisce la desertificazione del pianeta. Solo negli ultimi quarant’anni il 30% dei terreni coltivabili è diventato improduttivo. Inoltre, già oggi il 70% dell’acqua dolce è destinato alla produzione agricola e di cibo. In questo scenario, dunque, come è possibile pensare di incrementare la produttività della terra?», si chiede Zamagni, entrato quest’anno nell’ advisory board della Fondazione Barilla Center for Food and Nutrition, così come la giurista Livia Pomodoro, che oggi ricopre la carica di presidente del Milan Center for Food Law and Policy.
La via alla sostenibilità del pianeta passa semmai attraverso una nuova concezione del cibo, inteso come bene comune e non più solo affare privato. «Nella società di oggi la produzione degli alimenti è finalizzata quasi esclusivamente al profitto. I beni alimentari non consumati non vengono così redistribuiti a chi ne avrebbe bisogno, ma sono smaltiti per evitare di abbassarne il prezzo di mercato e sottrarre così fonti di profitto al sistema economico».
Secondo la Fao, l’agenzia delle Nazioni Unite per l’agricoltura e l’alimentazione, il cibo buttato via ogni anno, pari a un terzo del totale prodotto, ha un valore di 2.600 miliardi di dollari. Di contro, nel mondo le persone che vivono al di sotto della soglia della povertà e che devono affrontare quotidianamente problemi di denutrizione se non di fame, sono 800 milioni.
«Già oggi però la società civile si sta muovendo verso un modello più sostenibile di utilizzo delle risorse — continua Zamagni —. Una mobilitazione dal basso, fondata sull’idea che il cibo non può essere oggetto di speculazione finanziaria, come avviene con l’emissione dei derivati sulle commodities . La stabilità dei prezzi è infatti condizione imprescindibile per la sussistenza dell’agricoltura».
Certo, questi traguardi sono difficili da raggiungere, sottolinea Zamagni, ma d’altronde «alternative non ne esistono. L’affermazione della sharing economy dimostra che il mondo oggi ha bisogno di nuovi modelli socio-economici. Il principio della condivisione dei beni già affermatosi in diversi settori produttivi, prima o poi riguarderà anche il cibo». La produzione di beni alimentari troverà inoltre nuovi stimoli dall’innovazione tecnologica e dall’impatto della digitalizzazione sui suoi processi. «Così come è avvenuto nell’industria e nei servizi, la quarta rivoluzione industriale è destinata a mutare in profondità anche l’agricoltura». spiega Zamagni. Alveari hi-tech, sistemi di agricoltura di precisione con droni e satelliti, stampanti in 3d per la produzione di pasta, coltivazione idroponica, valorizzazione degli scarti. Sono queste solo alcune delle nuove frontiere su cui il mercato ha iniziato già da qualche anno a scommettere. «L’importante è che tutto questo avvenga favorendo la sostenibilità. Se no, sarà l’ennesima opportunità di sviluppo intelligente sprecata». conclude Zamagni.
A. sAL. – Corriere Economia – 28 novembre 2016