Francesca Schianchi. Al più presto il ministro della Pubblica amministrazione Marianna Madia convocherà le Regioni. All’indomani della sentenza della Consulta che boccia una parte della sua riforma, la prima cosa da fare è convocare tutti i governatori e ottenere il loro sì sui decreti attuativi della legge, quelli già pubblicati in Gazzetta Ufficiale e quelli ancora da scrivere: secondo la sentenza, è necessario non solo il parere non vincolante delle regioni (già ottenuto), ma la loro intesa, cioè il loro ok all’unanimità. Su una parte dei decreti, la ministra pensa che l’assenso arriverà; due invece sono destinati a morte certa.
«Quale regione avrebbe il coraggio di schierarsi con i furbetti del cartellino negando l’assenso a quel decreto?», si chiedono al ministero, convinti che per quella norma, come su quella che istituisce un albo da cui scegliere i direttori sanitari o sulla riduzione delle partecipate, nessun governatore negherà l’ok e le regole resteranno in vigore. Ma l’amarezza resta per gli altri due, sulla carriera dei dirigenti e sui servizi pubblici locali, per i quali non c’è tempo di convocare le regioni prima della loro scadenza, oggi, e quindi moriranno. Per questo, pur ritenendo la sentenza «rispettabilissima», ci si rammarica del suo tempismo: se fosse arrivata tra qualche giorno, cioè dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, si sarebbero potuti salvare. Non si spingono oltre a commentare la sentenza, al ministero, ma lo fa il capogruppo Pd al Senato, Luigi Zanda: «La Corte avrebbe fatto meglio a rinviare la decisione di una settimana. Tra le doti degli organi costituzionali dovrebbe esserci la prudenza che la stessa Corte ha usato poche settimane fa, rinviando la decisione sulla legge elettorale».
Se anche buona parte della riforma resterà in piedi, quel che al governo si vuole sottolineare è la sensazione di un Paese bloccato. «Se una regione è contraria, salta tutto e la legge non si fa. Dopo due anni, abbiamo scherzato», sintetizza Patrizio Caligiuri, il capo della segreteria tecnica del ministro, in un post su Facebook ritenuto così incisivo dal premier Renzi che lui stesso lo ha condiviso: «Per chi vuole capire cosa è successo con la riforma Madia e perché l’Italia deve cambiare». Tanto che una sentenza sicuramente non gradita, e non attesa, viene usata come occasione per spiegare meglio le ragioni del sì al referendum. «Un motivo in più per rimettere mano alla riorganizzazione delle materie del Titolo V», la definisce il sottosegretario Luca Lotti, per introdurre il Senato delle regioni e dare l’ultima parola alla Camera. Al contrario, dall’opposizione è vista come la certificazione dell’incapacità del governo di scrivere le riforme, come dice dal centrodestra Raffaele Fitto e da Sinistra italiana il capogruppo Arturo Scotto. «Sicuri che non serva cambiare? Perché quando i contrappesi diventano molti più dei pesi, il risultato è la paralisi», scrive Caligiuri. E Renzi sottoscrive.
La Stampa – 27 novembre 2016