A un passo dal traguardo saltano le riforme sulla dirigenza pubblica e i servizi locali, inciampate nelle obiezioni costituzionali scritte nella sentenza 251/2016 depositata ieri dalla Consulta. In Gazzetta Ufficiale, invece, erano dati in arrivo già ieri due dei tre provvedimenti (Camere di commercio ed enti di ricerca) varati giovedì mentre per il terzo (Scia-bis) è atteso oggi. I termini per esercitare la delega scadono domani, per cui la partita sui dirigenti, accompagnata da polemiche accese fin dal fischio d’inizio, si dovrà riaprire da capo, e lo stesso accade per la riforma di servizi e trasporto pubblico locale.
La decisione dei giudici delle leggi, in realtà, lasciava aperta una finestra per portare avanti i due provvedimenti, e intervenire ex post con i correttivi. Ma dopo una discussione durata l’intera giornata, il governo ha deciso di bloccare i decreti, che sarebbero stati comunque esposti a un potenziale fuoco di fila di ricorsi da parte delle Regioni. Difficile, ora, prevedere se e come si riaprirà la strada della riforma, che ora allunga la lista sterminata di interventi appesi ai risultati del referendum del 4 dicembre. Il governo, per andare avanti, dovrà comunque tornare in Parlamento e intervenire sulla legge delega, per aggiustare l’iter della riforma già approvata sulle società partecipate e di quella ancora in cantiere sul testo unico del pubblico impiego. A quest’ultimo sono legate anche le trattative per avviare i rinnovi dei contratti pubblici, che hanno bisogno di interventi importanti sul piano delle regole relative ai premi di produttività e alla divisione dei compiti fra legge e contratti.
Per i dirigenti, si diceva, la scelta di fermare in extremis il decreto riporta ai nastri di partenza una riforma che toccava i nodi più delicati ai vertici dell’amministrazione pubblica, introducendo il meccanismo degli incarichi quadriennali e la possibilità di accedere a tutte le posizioni, dallo Stato alle autonomie locali, per i componenti dei ruoli unici della «dirigenza della Repubblica». La resistenza portata avanti in particolare dalle caselle più alte della gerarchia amministrativa, che occupano la «prima fascia» della dirigenza statale, ha accompagnato il testo fin oltre la soglia del consiglio dei ministri di giovedì, che l’aveva infatti approvato «salvo intese» proprio per calibrare l’eventuale clausola di salvaguardia a loro favore. I tecnici del governo sono stati al lavoro per tutta la giornata di ieri nel tentativo di trovare la quadra, e di ottenere la bollinatura della Ragioneria generale su un impianto a rischio di creare anche costi aggiuntivi per il funzionamento delle commissioni nazionali e dei ruoli unici.
Identica la sorte per il decreto sui servizi pubblici, che conteneva anche il ricco capitolo dedicato al trasporto locale e caratterizzato dall’obiettivo di far partire ad ampio raggio le gare per gli affidamenti nel 2017. Anche in questo campo, la storia dei tentativi di riforma è lunga e travagliata, e ricca di incroci con le bocciature costituzionali. La sua prima tappa rimanda al 2008, quando il governo Berlusconi scrisse nella manovra estiva (articolo 23-bis del decreto legge 112) un tentativo di «liberalizzazione» e privatizzazione bocciato nel 2010 dalla Consulta (sentenza 325). I giudici delle leggi non poterono che confermare il verdetto due anni dopo (sentenza 199/2012), quando sui loro tavoli finì la norma fotocopia introdotta nella manovra estiva del 2011 (articolo 4 del decreto legge 138). Anche in questo caso, quindi, si dovrà ripartire da zero. Come?
Le «correzioni» della la delega originaria sono inevitabili per salvare i decreti su licenziamenti, dirigenti sanitari e partecipate, che comunque dovranno ripassare anche in Conferenza Unificata o Stato-Regioni per cercare l’intesa con le autonomie locali. Per gli amministratori locali si riaprirebbe quindi la possibilità di chiedere che vengano riviste al ribasso le soglie minime di fatturato per tenere in vita la società, cioè la principale fra le «condizioni» poste a suo tempo ma non accolte dal testo definitivo. Il ritocco della legge delega, però, difficilmente potrà riaprire i termini in scadenza domani, a meno di una forzatura destinata a riaccendere le polemiche su una riforma che ora appare colpita al cuore.
Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore – 26 novembre 2016