Donald Trump aveva detto di non sapere neppure chi fosse Matteo Renzi, ma la sua elezione a presidente degli Stati Uniti sta già causando più di un problema al premier italiano. Gli investitori sembrano convinti che il tycoon si lancerà in una politica di bilancio espansiva che contribuirà a riportare in alto l’inflazione mondiale. Il risultato è che da qualche giorno i governi devono offrire rendimenti sempre maggiori sui titoli di Stato, con effetti particolarmente negativi per i Paesi dall’alto debito pubblico come il nostro.
Una “reflazione” sostenuta rischia infatti di esporre le crescenti vulnerabilità del mercato dei Btp, coperte fino ad ora dagli acquisti da parte della Banca centrale europea.
Il rendimento sui Btp decennali è arrivato ieri al 2,02%, quasi trenta punti base in più rispetto a mercoledì. Sempre ieri, il Tesoro ha dovuto ridurre marcatamente la quantità di Btp a lunga scadenza collocata in asta, fermandosi a 1,3 miliardi di euro di titoli trentennali rispetto a un massimo della forchetta di 1,5 miliardi.
«Per la prima volta da circa quattro anni, hanno dovuto tagliare la quantità offerta in asta in maniera significativa», dice un banchiere. «Nel periodo della crisi era successo due o tre volte, sono segnali che un po’ di preoccupazione dovrebbero darla».
Oltre alla risalita delle aspettative d’inflazione, l’Italia paga l’incertezza politica legata al referendum costituzionale del 4 dicembre che aiuta a spiegare l’allargamento dello spread rispetto a Germania e Spagna. Il primo ha toccato ieri i 171 punti base mentre il secondo è arrivato a 55.
L’altro fattore di rischio sono i dubbi circa il futuro del quantitative easing della Bce. Un eventuale aumento delle prospettive d’inflazione renderà più difficile per il presidente Mario Draghi prolungare nel tempo gli acquisti di obbligazioni governative e corporate in scadenza a marzo.
Questa turbolenza arriva alla vigilia di un anno in cui la Direzione del debito pubblico, presso il ministero dell’Economia, guidata da Maria Cannata dovrà collocare circa 211 miliardi di euro in titoli a media e lunga scadenza, in forte aumento rispetto ai 175 di quest’anno.
Nel recente passato, proprio in prospettiva di questo annus horribilis, il Mef ha prudentemente ridotto le quantità da piazzare, attraverso una serie di concambi e buyback, ma l’impegno resta comunque significativo.
L’altra grande preoccupazione per l’Italia riguarda i cambiamenti strutturali in atto nella cosiddetta attività di market making, ovvero la disponibilità da parte delle banche di acquistare larghe quantità di titoli di Stato durante le aste per poi collocarle con calma agli investitori. Questo cuscinetto è fondamentale perché il Tesoro riesca a finanziarsi a intervalli regolari, indipendentemente da shock temporanei che possono accadere in concomitanza con le aste.
I cambiamenti regolatori, che impongono alle banche di elevare il quantitativo di capitale che deve essere messo da parte per tenere sul proprio bilancio determinati titoli, stanno infatti rendendo gli istituti sempre più riluttanti ad agire da intermediari. Dopo l’uscita di Commerzbank e Credit Suisse, il numero di cosiddetti “primary dealer” si è già ridotto da 20 a 18 e la paura che possa scendere ulteriormente è reale.
L’ultimo timore che comincia a serpeggiare a Via XX Settembre riguarda il futuro di Mts, la piattaforma che dal 1988 permette di comprare e vendere titoli di Stato in maniera efficiente e trasparente.
Mts è di proprietà di London Stock Exchange che sta finalizzando la sua fusione con Deutsche Boerse. Il problema per l’Italia è che i tedeschi sarebbero poco interessati a sviluppare il mercato “cash” che sottende la gran parte di transazione sui Btp, preferendo invece quello “derivato”, che è molto più diffuso per i bund.
La gestione delle piattaforme può essere assolutamente decisiva nei momenti di crisi. Durante la crisi del 2011-2012, con il picco del debito sovrano nell’eurozona, la società Lch.Clearnet, che gestisce la maggiore cassa di compensazione di titoli di Stato internazionali, aumentò notevolmente i margini di garanzia richiesti per trattare Btp e bonos spagnoli. L’effetto fu quello di far aumentare ulteriormente i già alti rendimenti su questi titoli, aggravando la crisi.
Con una possibile tempesta perfetta in arrivo, la questione delle infrastrutture su cui si muovono i Btp appare tutto tranne che secondaria.
Repubblica – 12 novembre 2016