I genitori devono essere di comune accordo. L’ultimo testo di riforma è ancora fermo al Senato La Corte costituzionale apre al cognome materno per i figli, quando i genitori lo vogliono, dichiarando incostituzionale l’automatica attribuzione del cognome paterno, che vige nel nostro Paese. Regola che si ricava non da una norma di legge esplicita ma da alcuni articoli del codice civile, da un regio decreto del 1939 e da un decreto del Presidente della Repubblica del 2000.
I giudici della Consulta hanno dovuto decidere sul caso di un bambino italo-brasiliano nato nel 2014, con doppia cittadinanza, a cui l’ufficiale di stato civile rifiutò il doppio cognome. Il relatore della sentenza sarà Giuliano Amato.
La Corte costituzionale si era già espressa su questa materia nel 2006: quella volta,tuttavia, pur ammettendo che l’attribuzione automatica del cognome paterno fosse «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia», dichiarò inammissibile la questione, rimandando al legislatore. Ma il Parlamento ancora oggi non ha deciso, nonostante la prima proposta di legge in questo senso risalga a 37 anni fa, e nonostante da due anni sia ferma al Senato una legge già approvata alla Camera.
I giudici della Corte d’Appello di Genova, città di nascita del bambino, hanno quindi deciso di tornare a chiedere alla Consulta, perché a loro avviso c’erano adesso nuovi presupposti per pronunciarsi: un’ordinanza della Cassazione del 2008 e una recente condanna della Corte di Strasburgo.
I magistrati genovesi hanno fatto riferimento anche agli articoli della Costituzione: il 2, diritto all’identità personale; il 3, diritto di uguaglianza e pari dignità sociale dei genitori nei confronti dei figli; il 29, diritto di uguaglianza morale e giuridica dei coniugi; il 117 che si riferisce ai principi di convenzioni e risoluzioni internazionali, prima tra tutte la Convenzione dell’Onu contro ogni disparità tra uomo e donna.
«È una grande svolta di civiltà — dice il presidente dell’Associazione avvocati matrimonialisti Gian Ettore Gassani —. Crolla l’ultimo baluardo del patriarcato, che oltretutto dipende non da una norma di legge ma da una millenaria consuetudine che deriva dal diritto romano, e che è assolutamente antistorica. Come per le Unioni civili, arriviamo dopo tutti gli altri — continua Gassani —. Ora il Parlamento deve fare presto, non ci sono altri impedimenti per riprendere in mano la legge ferma al Senato. La Corte ha dato una scudisciata al legislatore. Noi matrimonialisti siamo pronti a collaborare».
L’avvocato della coppia, Susanna Schivo, ha sottolineato come in Italia per avere il doppio cognome o per dare il cognome della madre al figlio, dietro volontà di entrambi i genitori, bisogna ricorrere alla norma che lo prevede, in casi eccezionali. «Ma questo — ha detto Schivo — lascia la decisione ai singoli prefetti, un’ingerenza intollerabile e ingiusta dell’autorità amministrativa nella vita privata delle famiglie». Inoltre, conclude l’avvocato, «l’attribuzione automatica del cognome paterno non tutela alcun interesse, certo non quello del minore: è quindi irragionevole».
Molti i plausi alla sentenza della Consulta, anche bipartisan, cosa che fa sperare in una veloce soluzione della questione. Da Monica Cirinnà, Pd, relatrice della legge sulle Unioni civili («Bene. Ora tocca al Parlamento») a Elena Centemero, Forza Italia («Passo avanti verso il superamento degli ostacoli che impediscono la piena uguaglianza di genere»). «Tempi certi e brevi» chiede la senatrice Anna Finocchiaro.
Mariolina Iossa – IL Coriere della Sera – 9 novembre 2016