Luca Fiorin. Emergenza Pfas: a Cotogna il sindaco vieta l’uso dell’impianto di prelevamento dell’acqua di un’azienda agricola perché «contaminato». II provvedimento, che è stato firmato da Manuel Scalzotto mercoledì scorso, sancisce «il divieto di utilizzare l’acqua del pozzo privato per scopi potabili o per la produzione di alimenti» e, di fatto, apre una nuova fase per quanto riguarda l’inquinamento delle acque da sostanze perfluoro-alchiliche.
Nel Colognese, infatti, questa è la prima ordinanza ad essere adottata per presenza di Pfas e, quindi, dimostra ufficialmente che nel territorio alcune acque di falda sono inquinate. La presenza di inquinanti nelle acque profonde dell’area a cavallo fra le provincie di Verona, Vicenza e Padova è cosa nota dall’estate del 2013 e costituisce un problema per risolvere il quale, secondo quanto ribadito anche recentemente da funzionari regionali, serviranno almeno 80 anni. Se le acque distribuite dall’acquedotto, che pure vengono in pescate dalla falda inquinata, vengono trattate con costosi impianti a carboni attivi, con i pozzi privati tali cautele sono difficili, se non impossibili, da adottare. Non è quindi un caso che nel Vicentino più volte, in passato, siano stati emessi divieti di utilizzo di acque prelevate con impianti privati.
Una situazione che ora si manifesta anche nel Colognese, anche se non è la prima volta che si parla di pozzi contaminati. Sono più d’uno i casi di questo tipo emersi negli ultimi mesi. Situazioni che non sono state oggetto di provvedimenti ufficiali, visto che a fare le analisi erano stati gli stessi proprietari e da laboratori privati. Di questi pozzi, il Comune non sa nemmeno che esistono.
«L’Ulss 20», spiega il sindaco di Cologna, Scalzotto, «ha inviato al Comune una nota nella quale spiega che in un pozzo di un’azienda agricola di via Chiesole, la quale pesca ad una profondità di 12-14 metri, c’è presenza di Pfas superiore ai valori di performance vigenti e, per questo, ho dovuto vietare l’uso dell’acqua, a tutela della salute pubblica».
Pur essendo quella zona, San Sebastiano, priva del servizio di acquedotto pubblico, tale divieto non è fonte di particolari disagi, visto che la casa, l’azienda agricola e l’annesso allevamento zootecnico, possono sfruttare un secondo pozzo a 60 metri di profondità e le cui acque risultano potabili. Il fatto è, però, che ora è ufficialmente emersa una situazione finora rimasta sempre sotto traccia.
Anche se la Regione ha chiesto alle Ulss di compiere una verifica a tappeto sulla situazione delle acque che vengono usate per abbeverare gli animali negli allevamenti azione che è in corso – resta il fatto che poco o nulla si sa in merito all’esistenza, e alla sicurezza, dei pozzi privati. Il Comune, come tutti quelli dell’area esposta all’inquinamento, ha emesso già in anni passati provvedimenti con cui rendeva nota la necessità di denunciare gli impianti: ben pochi, però, hanno rispettato tale obbligo.
Farlo ora, d’altro canto, significherebbe andare incontro alla possibilità di subire sanzioni salate, che possono arrivare persino a decine di migliaia di euro. Eppure, secondo alcune stime, solo nel Colognese i pozzi privati sarebbero alcune migliaia. Pozzi spesso non controllati nemmeno dai loro proprietari e che possono prelevare acqua contenente Pfas o altri inquinanti, visto che in questo territorio passa un corso d’acqua, il Fratta-Gorzone, che è da decenni il ricettacolo di scarti di produzione industriale altamente inquinanti e pericolosi per la salute. Pozzi che costituiscono un potenziale pericolo sconosciuto ai più.
L’Arena – 6 novembre 2016