La “bufala del cioccolato” ha fatto scalpore circa un anno fa, tanto da diventare un caso di studio perfino per la prestigiosa scuola di giornalismo della Columbia University: un biologo e giornalista scientifico di Harvard, John Bohannon, assieme a due documentaristi tedeschi, ha condotto un falso studio clinico sostenendo che la cioccolata facesse dimagrire, lo ha fatto pubblicare su una rivista non troppo attenta ai dettagli e poi ha fatto circolare un comunicato stampa sul tema.
Sbalordito, ha visto decine e decine di giornali sparare il titolo in prima pagina: nessuno si era preso il disturbo di leggere a fondo il testo, controllare i dati, capire che si trattava di una ricerca piena di falle.
Le bufale in medicina si diffondono anche così, come spiega Bohannon: «Molti redattori non l’avranno neppure letto: sanno che periodicamente escono studi che dimostrano le virtù del cioccolato e tanto è bastato per pubblicare anche questo».
Scarsa attenzione dei giornalisti a parte, Bohannon tocca uno degli elementi che spiegano perché le bufale su salute e benessere sono così diffuse: se una notizia “piace”, finiremo per crederla vera.
«Non siamo macchine pensanti che si emozionano, ma esseri emotivi che pensano: la prima area del cervello che si attiva di fronte a un messaggio è sempre quella deputata alle emozioni, solo dopo si accende la corteccia razionale — interviene Vincenzo Russo, docente di Psicologia dei consumi e neuromarketing alla Libera Università di Lingue e Comunicazione Iulm di Milano — . In altri termini scegliamo emozionandoci, poi troviamo una giustificazione a ciò in cui crediamo: siamo razionalizzatori, più che razionali».
«Un meccanismo ben conosciuto e sfruttato dal marketing — prosegue Russo — per esempio, per venderci cibi che immaginiamo più buoni o sani solo perché in etichetta c’è scritto “biologico” o “prodotto locale”, termini che oggi attirano la nostra attenzione e che associamo al benessere. Sulla salute è più facile che bufale e false credenze si diffondano proprio perché è un settore che coinvolge molto più di altri l’emotività».
Così eccoci pronti a essere convinti che la cioccolata faccia dimagrire o anche a credere a cose ben peggiori, dai vaccini male assoluto alle cure anticancro miracolose che sono in realtà acqua fresca. Stando agli psicologi, la tendenza a credere alle bufale così come ai complotti (dalle scie chimiche ai medici che non vogliono curare il cancro per lucrare con farmaci costosi e inutili) si associa a tratti del carattere come la mancanza di fiducia sociale, ovvero la tendenza a credere che gli altri siano in genere poco onesti e sinceri; contano poi il “cinismo politico”, ovvero un’idea generalmente negativa del sistema e delle istituzioni, e una bassa autostima che porta a pensare di non poter far mai molto per cambiare le cose (invece conoscere retroscena che gli altri ignorano o essere al corrente di qualche verità, qualsiasi essa sia, fa sentire già un po’ più “potenti”).
«Subiamo anche il cosiddetto “pregiudizio della conferma”: dal punto di vista cognitivo ed emotivo è meno faticoso accettare tutte le informazioni che avallano le nostre credenze, giuste o sbagliate che siano – osserva Guendalina Graffigna, docente di Psicologia applicata al marketing sociale all’Università Cattolica di Milano –. Le bufale ci sono sempre state e si sono sempre diffuse con il passaparola, adesso l’entità del fenomeno è enorme grazie al web dove troviamo tutto e il suo contrario e chiunque riesce a reperire informazioni che comprovano qualsiasi ipotesi, rafforzando le proprie idee. Non basta: se accediamo a questi contenuti e magari apponiamo un “mi piace” sui social, gli algoritmi di Internet ci proporranno poi notizie e dati in sintonia con ciò che abbiamo apprezzato rinforzando ancora di più questa “bolla informativa” e l’autoselezione delle informazioni». Come difenderci allora? «Allenando il senso critico e dando credito solo a fonti di informazione autorevoli — risponde Graffigna —. Purtroppo sono percepite distanti, autoreferenziali e vengono messe in discussione, in gran parte perché hanno un modo di comunicare “antico”, poco social: sui siti ministeriali e simili le informazioni sono date senza tener conto della voglia dei cittadini di essere protagonisti dei percorsi di cura, di avere un ruolo attivo e dire la propria».
« Il gran proliferare delle bufale — sottolinea l’esperta — è anche sintomo di questo desiderio di partecipazione che poi prende le strade più disparate».
«Il “tutti ne parlano” trova in breve una sua veridicità a prescindere dai contenuti, quando viaggia sul web: la gente ritiene veritiere le informazioni trovate in rete nel 59 per cento dei casi — riprende Russo —. Del resto siamo “semplificatori”, crediamo a ciò che riusciamo a capire o che conosciamo: se non siamo motivati o non abbiamo competenze per decidere su un argomento, ci facciamo guidare da ciò che stimola di più l’emozione.
«È vero per tutto ciò che riguarda la salute e il benessere — conclude Russo — ed è evidente nella comunicazione nel settore alimentare, come sanno bene i pubblicitari: non sarebbe affatto necessario scrivere sulla confezione d’acqua che aiuta la diuresi, perché tutta l’acqua lo fa, ma la frase si rivolge alla “pancia” del consumatore e gli fa credere che il contenuto di quella bottiglia sia meglio di quello di tutte le altre anche se non lo è».
Elena Meli – Il Corriere della Sera – 30 ottobre 2016