Tito Boeri, 58 anni, irrompe in una sala del palazzo dell’Inps in piazza Colonna a Roma e subito torna indietro. Hanno portato via il tavolo, quell’ala dell’edificio andrà presto in affitto. A quasi due anni dall’inizio della presidenza Boeri, l’Istituto nazionale previdenza sociale è un cantiere di risparmi, messa a frutto delle risorse, riforme. Il professore si sistema in un’altra sala e spiega perché non vive il suo mandato da tecnico come una consegna al silenzio sulle grandi questioni del Paese. Poco importa se qualcuno al governo, in parlamento o nelle parti sociali si innervosisce per questo. «La previdenza ha orizzonti lunghi – dice -. Prima ancora del diritto, ho il dovere di segnalare quando certe misure hanno effetti sul debito pensionistico».
Il debito pensionistico sono i pagamenti dovuti in futuro ai lavoratori e ai pensionati di oggi, al netto dei contributi. Dov’è il problema?
«La premessa è che la nuova legge di bilancio compie un’operazione importante sulle pensioni: elimina le ricongiunzioni onerose fra casse previdenziali diverse. È positivo per l’equità e anche per l’efficienza e la crescita, perché evita di penalizzare chi cambia lavoro».
Un segno più per questa parte della manovra?
«Sicuramente. C’è poi una seconda operazione che questa legge di bilancio tenta, la flessibilità in uscita. Anche questa è un’idea che abbiamo sostenuto, però stando attenti a non aumentare gli oneri sulle generazioni future».
Trova che la manovra, con 7 miliardi di costo dell’intervento sulle pensioni, rispetti questo criterio?
«Secondo le nostre stime, ciò che oggi è scritto nella legge di bilancio – gli interventi sulla quattordicesima, sui lavoratori precoci e la sperimentazione sull’Ape social (l’anticipo pensionistico a spese dello Stato, ndr ) – aumenta il debito pensionistico di circa 20 miliardi. Poi ci sono i costi legati all’estensione della fascia di reddito non tassata per i pensionati, più i crediti d’imposta per chi chiede l’Ape di mercato (l’anticipo pensioni tramite prestito bancario, ndr ). E varie altre questioni aperte, che possono generare ulteriori spese».
Esempi di queste incognite?
«Non è detto che dopo il 2018 sarà facile interrompere l’Ape social, anzi la pressione ad allargare la platea dei beneficiari sarà forte. Se questo strumento venisse rinnovato anche solo nella forma attuale e reso strutturale, calcoliamo che ci sarebbero altri 24 miliardi di debito pensionistico. Dunque in totale 44 miliardi in più».
Pier Carlo Padoan, il ministro dell’Economia, ribatte che è lei ad aver presentato una proposta di flessibilità pensionistica che implica aumenti dei costi.
«Le nostre proposte riducevano il debito pensionistico ed era anche prevista una riduzione parziale di certe pensioni attuali. Abbassavamo così il debito pensionistico di circa il 4% del prodotto interno lordo».
Il governo produce 20 miliardi di nuovi oneri, più forse altri 24, mentre la proposta Boeri implicava 60 miliardi in meno. Che costi sociali avrebbe avuto la sua idea?
«Be’, non era un’operazione così radicale. Sulle pensioni attuali i tagli erano previsti solo a contare dai 5.000 euro lordi al mese verso l’alto e solo sulla differenza fra quanto giustificato dai contributi versati e quanto le persone ricevono. In rari casi ci sarebbe stata una riduzione della pensione appena superiore al 15%. Non drammatico, dal punto di vista sociale».
Lei ha rapporti complessi con i sindacati sulla gestione dell’Inps. Dopo le misure in manovra, cosa cambia?
«I sindacati hanno un ruolo essenziale nell’informare lavoratori e pensionati, soprattutto con questi nuovi provvedimenti. Discuterò con loro un piano per chiarire a tutti cos’è l’Ape e le scelte che ciascun lavoratore sarà chiamato a fare. Dovremo essere più presenti nei territori per spiegare, numeri alla mano, le implicazioni di ogni scelta su come e quando percepire la pensione. Peraltro l’Ape porta a svolgere attività molto diverse dalle nostre tradizionali, imponendoci una tempestività stringente. Mi auguro che in Legge di bilancio ci siano risorse per fare assunzioni e permettere all’Ape di funzionare. Oggi l’età media dei dipendenti Inps è di 55 anni e in aumento».
Nel bilancio c’è anche la sanatoria su penali e interessi per chi è in ritardo su tasse o contributi. Che ne pensa?
«Mi preoccupa che possa avere effetti sulla raccolta contributiva. Con operazioni di questo tipo c’è sempre il rischio di dare segnali di lassismo, non vorrei si indebolisse la campagna fatta per contrastare l’evasione. Se in qualche modo si diffonde la percezione che ritardando o dilazionando i pagamenti poi non si pagano sanzioni, il rischio di indebolire questo sforzo c’è».
Vedete già effetti del genere?
«Be’, i dati dicono che le imprese che pagano le sanzioni poi tendono a dichiarare più lavoratori. La sanzione pagata incide come deterrente. Poi c’è l’effetto sulle riscossioni, che sono crollate da quando in Italia si è cominciato a parlare di questa “rottamazione” delle cartelle».
Sugli effetti del Jobs Act sull’occupazione arrivano tanti numeri contraddittori. Lei che idea si è fatto?
«Nel 2015 c’è stato un forte incremento del lavoro dipendente e dei contratti a tempo indeterminato, di circa 800 mila unità. Poi nel 2016 il numero di questi contratti si è stabilizzato».
C’è polemica sul fatto che sarebbero aumentati i licenziamenti. È fondata?
«No. Se si guardano i dati, la probabilità di licenziamento in Italia cala dal 7% del 2014 al 6% del 2015 con l’entrata in vigore del Jobs Act, poi resta su questi livelli nel 2016. In ogni caso i numeri dei licenziamenti disciplinari su cui si è fatta molta polemica sono piccoli».
Lei al referendum costituzionale come vota?
«Non posso dichiararmi, sono un funzionario pubblico. Mi auguro solo che le persone riflettano sui contenuti del referendum, su quello che c’è dentro».
Però lei di recente ha parlato di reddito minimo e di controlli su prestazioni come le pensioni di invalidità, in connessione al referendum. Che voleva dire?
«Il nuovo titolo V (che riporta verso il governo parte dei poteri delle regioni, ndr ) potrebbe darci gli strumenti per fare meglio le politiche sociali in Italia, anche perché in passato si era andati troppo in direzione del decentramento. Per esempio se vogliamo un reddito minimo, c’è bisogno di uno schema che sia in gran parte finanziato dal centro, ma con la partecipazione degli enti locali. Altro punto: ci sono differenze notevoli fra provincie nell’accesso alle indennità di accompagnamento, che non si possono spiegare con l’età media degli abitanti o con la loro salute».
C’è chi le chiama false pensioni di invalidità, diffuse soprattutto al Sud. Ma che c’entra il referendum?
«Va garantita uniformità sul territorio nazionale nel fare gli accertamenti, vincendo le resistenze di molte Regioni. Meglio un’infrastruttura nazionale unica per questo».
Dicono lei si voglia dimettere. È vero?
«No, voglio portare a termine il mio lavoro. È una sfida complessa, forse anche più difficile di quanto pensassi. Ma non ho mai parlato o minacciato di dimettermi. Allo stesso tempo, sono qui non perché ho chiesto di fare questo lavoro ma perché mi è stato chiesto. Ne sono onorato. Ma basterebbe che il presidente del Consiglio mi chiedesse anche solo velatamente di fare un passo indietro, per spingermi a farlo subito. Lo farei senza rancore, perché mi piace troppo fare quello che facevo prima».
Il Corriere della Sera – 28 ottobre 2016