Chiede «scusa alla famiglia» Luca Casertano, direttore sanitario dell’ospedale San Camillo di Roma: «Quello che è successo è un indubbio fallimento della nostra struttura, avremmo dovuto fare di più, non ci siamo riusciti». Un golf attaccato con lo scotch al muro e «i nostri corpi a formare una barriera» per dare l’ultima privacy ad un uomo che sta morendo.
Questo è quello che Patrizio Cairoli, 38enne romano, è riuscito ad ottenere per suo padre, malato di cancro terminale che ha trascorso le sue ultime 56 ore di vita nel pronto soccorso del San Camillo. «Abbiamo protestato, non abbiamo ottenuto nulla, appena un paravento per ridare dignità a chi sta morendo», ma «uno solo, perché gli altri servono per garantire la privacy durante le visite».
Marcello Cairoli è morto il 24 settembre in una sala dove vengono tenuti i pazienti in codice giallo e verde, i meno gravi. «Accanto ad anziani abbandonati, persone con problemi irrilevanti che parlavano e ridevano, vagabondi e tossicodipendenti». Suo figlio Patrizio ha raccontato tutto in una lettera inviata alla ministra della Salute Beatrice Lorenzin, per far sapere tutto quello che è successo «a Roma, capitale d’Italia», appena pochi giorni fa. Nero su bianco per descrivere il «calvario» di quell’uomo che solo 3 mesi fa aveva scoperto di essere così malato e che ha trascorso a «combattere contro l’indifferenza dei medici».
La ministra Lorenzin gli risponde: «Sono rimasta molto colpita da questa lettera, ci sono dei punti molto gravi». E annuncia l’invio di una «task force». Al San Camillo arriveranno gli ispettori, ma intanto scoppia il caso. Il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti sollecita «con urgenza» una relazione dettagliata sulla vicenda: «Non possono essere tollerate all’interno di una struttura della sanità pubblica situazioni, qualora fossero accertate, così lesive della dignità umana e del malato». Il direttore sanitario Casertano prova a ricostruire: «Non c’erano posti letto nei reparti e l’unica sala per i pazienti terminali era già occupata: abbiamo fatto il possibile, abbiamo trovato una barella e un separé e il paziente è stato lasciato nella sala dei codici gialli e verdi perché i familiari potessero stare con lui; l’assistenza domiciliare o l’hospice è stata richiesta ma ci vuole qualche giorno per attivarla, nel frattempo abbiamo somministrato le cure palliative dando morfina e ossigeno: non c’era molta dignità in quel separé ma abbiamo preferito non rimandarlo a casa senza cure, sarebbe stato crudele». E aggiunge: «In reparto si manda chi ha maggiori possibilità di essere salvato». Anche perché «i pronto soccorso non dispongono di un’area strutturata per accogliere le persone in fine vita». Con 150 ingressi al giorno, 90 mila all’anno, e i «continui tagli dei posti letto», dice Stefano Barone del sindacato infermieri Nursind, «al San Camillo c’è un problema di logistica e mala organizzazione e a volte si resta anche 6 giorni in pronto soccorso, purtroppo sono cose all’ordine del giorno». Per la mancanza di posti letto, due anni fa, i medici dell’area di emergenza furono costretti a mettere i pazienti per terra sui materassi.
Claudia Voltattorni Il Corriere della Sera – 6 ottobre 2016