Da metà settembre i cassonetti al 20 di viale Japigia, alla periferia occidentale di Lecce, si stanno riempiendo più lentamente. Stefania Quarta, 44 anni, ha fatto alcuni calcoli. Ha appena aperto un negozio di prodotti biologici lì davanti, e già solo per questo riceve una decina di curriculum con richieste di lavoro alla settimana: l’emergenza nella sua città non è mai passata, la povertà la vedi in ogni strada.
Stefania ha anche stimato che nella sua azienda si producono eccedenze alimentari per circa 800 euro al mese — biscotti, yogurt, tofu, frutta — ma si era sempre trovata di fatto costretta a gettare tutto fra i rifiuti.
La legge metteva piccole aziende come la sua davanti a un labirinto, se volevano donare la merce invenduta. Avvertire la Guardia di Finanza cinque giorni prima, ottenere una serie di permessi, evitare le multe se avesse ceduto pane e biscotti infornati il giorno prima. Poi un giorno le è capitato fra le mani il testo di una legge entrata in vigore il 14 settembre (la 166/2016) e da allora i bidoni dei rifiuti davanti alle sue vetrine restano vuoti. Le forniture di Stefania Quarta all’Emporio della Solidarietà, un’associazione locale che distribuisce alimenti a centinaia di famiglie, sono aumentate in modo esponenziale.
Quella legge sembra disegnata apposta per essere l’opposto di tutto ciò che si sa dell’Italia. È passata rapidamente da Camera e Senato con il voto di tutti, e forse per questo in pochi se ne sono accorti. È scritta in modo così semplice che leggendola la si capisce, e così chiaro che non ha bisogno di decreti attuativi, norme interpretative, trasposizioni di mandarini centrali e regionali. Da quando è apparsa in Gazzetta Ufficiale, è applicabile con facilità. E anziché introdurre nuovi vincoli burocratici e nuove tasse, fa il contrario: un ristorante, un negozio di alimentari, una mensa aziendale o un supermercato che vogliano donare degli alimenti invenduti, possono farlo senza ostacoli e hanno diritto a pagare meno tasse per questo. Basta un documento di trasporto dell’associazione di beneficenza che riceve la merce, e quelle quantità diventano detraibili dai calcoli della tassa locale sui rifiuti (Tasi).
Opposto a ciò che si conosce della classe politica italiana è anche il modo in cui la legge è nata e ha preso forma. Lo si deve all’iniziativa silenziosa di deputato 36enne del Pd, Maria Chiara Gadda, ingegnera gestionale per aziende metalmeccaniche da Tradate in provincia di Varese. Per un anno Gadda ha girato mense di carità, supermarket solidali come l’Emporio di Lecce, associazioni di volontari in tutto il Paese, per capire come funziona la catena dell’aiuto alimentare, quali ne sono le strozzature e soprattutto come convertire gli sprechi di cibo in sostegno a chi non può comprarlo. In Italia, è un problema macroeconomico. Secondo il ministero delle Politiche sociali nel 2015 hanno fatto ricorso all’aiuto alimentare 2,8 milioni di persone, ma la stima tiene conto solo del consumo di derrate da circa 100 milioni l’anno finanziate dai fondi europei (e per il 15% dal governo). A questi si aggiungono i doni dei privati e la lotta allo spreco. Il Banco Alimentare, di gran lunga il leader in questo settore, riesce a recuperare poco più di 30 mila tonnellate di cibo all’anno e sostiene 1,5 milioni di persone; ma il Politecnico di Milano stima che si buttano in Italia ogni anno 5,1 milioni di tonnellate di alimenti commestibili. Non è un problema triviale in un Paese dal welfare pieno di malformazioni: Banca d’Italia stima che il 10% più povero della società sia tornato ai livelli di reddito del 1977, ma i trasferimenti pubblici in proporzione alle entrate familiari contano molto di più per il 30% degli italiani che guadagna di più. Nel frattempo i vincoli di bilancio inducono il governo a rinviare qualunque misura di sostegno ai 4,5 milioni di persone comprese nella categoria dei poveri «assoluti»: gli incapaci di comprarsi beni essenziali come il cibo.
La legge Gadda è attesa come una boccata d’ossigeno da Salvatore Esposito, lo stupefacente fondatore dell’Emporio della Solidarietà di Lecce. Con un’efficienza impeccabile, Esposito due volte la settimana riceve 250 famiglie nel suo supermarket dove si ottengono alimenti gratis grazie a un sistema a punti. Seleziona gli accessi secondo una graduatoria indicata da software in base a età e numero dei figlio a carico, o ai disabili in famiglia. Ogni pacco di pasta che entra e esce è registrato con un secondo sistema operativo. Oggi la lista di attesa degli esclusi che sperano di potersi rifornire lì è di 70 famiglie: non ce n’è mai abbastanza per tutti. «Negli ultimi anni il cibo a disposizione è sceso — dice —. Quelli che ne chiedono no».
Il Corriere della Sera – 27 settembre 2016