Il più amato è stato Giove Pluvio. A un passo dalla sua trionfale conclusione, nessuna valutazione sarebbe possibile senza rendere grazie al tempo, che ha benedetto Terra Madre Salone del Gusto con un exploit meterologico da Guinness dei primati. Quando il primo marzo Carlo Petrini annunciò in conferenza stampa che l’evento-culto di Slow Food avrebbe abbandonato i padiglioni del Lingotto per diventare open air, un brivido di freddo aveva percorso la sala del Castello del Valentino.
Certo, esisteva il precedente di “Cheese”, ma la fiera dei formaggi di Bra è grande quanto un mignolo del gigantesco totem slowfoodista. E comunque, le edizioni segnate dalla pioggia sono un ricordo tristanzuolo e indelebile nella storia della manifestazione. Invece il tempo ha retto benissimo e nemmeno una nuvoletta di fantozziana memoria si è frapposta tra le ansie degli organizzatori e le aspettative dei visitatori.
Scaramanzia vuole che nessun dato certo venga diffuso prima della chiusura di questa sera, ma mai si era visto un afflusso così massiccio e ubiquitario dal primo all’ultimo stand e dall’inizio alla fine.
Stime non ufficiali parlano di quasi 500mila persone soltanto ieri. Sono andati esauriti incontri e laboratori, cene stellate e menù in trattoria, cibi di strada e degustazioni guidate. I visitatori, sollevati dal prezzo del biglietto d’ingresso, hanno investito gli euro risparmiati in leccornie, per la felicità degli espositori, costantemente sull’orlo di una crisi di nervi per il timore di non rientrare dei soldi (non pochissimi) spesi per la partecipazione.
Ma più dell’evento, ha potuto la città. Che con la sua flemma proverbiale ha finto fino all’ultimo che nulla stesse succedendo, tenendo sotto il livello di guardia le proteste ambientaliste sullo stress annunciato per i prati del parco del Valentino, il malcontento per parcheggi ad alto rischio di occupazione continuata e abusiva, la visione apocalittica del centro storico ricoperto di carte e cartacce. Poi, quando tutto è cominciato, anche i torinesi hanno cominciato a correre: volontari e negozianti, interpreti e operatori ecologici, professori universitari e fornai. Senza isterie gratuite e senza mai scollare il patto virtuoso tra le due parti della rappresentazione, ospiti e ospitati.
La nuova formula della ventesima edizione del Salone rappresenta anche il suo punto di non ritorno. Mai più al coperto, accettando le incertezze del clima, mai più dividendo le due grandi branche della manifestazione, da una parte la produzione buona pulita e giusta e dall’altra l’agroecologia planetaria. Ma soprattutto, cercando di connotare l’impianto esterno secondo coordinate coerenti allo spirito di Slow Food, perché se per arraffare un panino purchessia basta allungare una mano, la linfa di agave ecuadoriana o la fontina d’alpeggio meritano uno spazio e un tempo più scanditi, rispettosi delle produzioni virtuose e della fatica supplementare che si portano appresso.
Se questo succederà, Torino si candida a buon diritto a diventare la capitale della gastronomia italiana, e non solo a mo’ di consolazione per la perdita del Salone del Libro. Perché tra la fruizione vagamente frenetica di Milano, le modalità dispersive di Roma e l’offerta concentrata sulla tradizione di Napoli, la cultura culinaria declinata a 360 gradi — fra tradizione millenaria ed eco-gastronomia del nuovo millennio — può trovare qui il suo ideale punto di approdo. Vini buoni compresi, naturalmente.
Repubblica – 26 settembre 2016