A voler essere benevoli, il ritardo che il disegno di legge concorrenza ha accumulato – licenziato dal Consiglio dei ministri a febbraio dell’anno scorso, approvato a ottobre dalla Camera e ora in procinto di affrontare il dibattito nell’Aula del Senato con la prospettiva di ritornare a Montecitorio – potrebbe essere imputato alla sua “inesperienza”. Si tratta, infatti, della prima volta che un Governo – da quando la legge 99 del 2009 ha previsto, con l’articolo 47, che si debba presentare ogni anno un Ddl per favorire la competitività – ha tenuto fede a tale impegno.
Non che finora non ci siano state misure sulle liberalizzazioni, ma questa è stata la prima volta che si sono seguite le regole dettate sette anni fa e sono stati tradotti in norme i suggerimenti dell’Antitrust per introdurre più concorrenza nel Paese. Infatti, il Ddl attualmente all’esame del Parlamento, collegato alla manovra per il 2015, discende dalle indicazioni inviate dall’Autorità a Camere e Governo nel luglio 2014. Indicazioni che, peraltro, Palazzo Chigi ha recepito solo in parte.
In realtà, l’anno e mezzo fin qui trascorso a discutere – a dispetto delle previsioni del Governo, che confidava nell’approvazione definitiva entro giugno scorso – si spiega con le continue pressioni a cui ciascuna norma è sottoposta, con un serrato lavoro di “togli e aggiungi” frutto anche del lavoro delle lobby.
Ed è soprattutto per questo che il testo licenziato a inizio agosto dalla commissione Industria del Senato e inviato all’assemblea di Palazzo Madama – che a sua volta dovrà districarsi, a partire dai prossimi giorni, tra almeno 700 emendamenti – si presenta molto diverso da quello approvato nel febbraio 2015 dal Consiglio dei ministri. Lo si apprezza già a prima vista: il numero degli articoli è più che raddoppiato, passando dai 32 della partenza agli attuali 74.
La crescita del testo non è necessariamente indice di un corrispondente aumento del livello di concorrenza. Ci sono, infatti, norme che sono state espunte – per esempio, la possibilità di costituire una Srl senza dover passare per il notaio, ma più semplicemente sottoscrivendo una scrittura privata -, altre che sono state limate, come quelle sulle assicurazioni, altre ancora che avrebbero dovuto esserci e in partenza si è, invece, deciso di soprassedere per non scatenare il malcontento degli interessati. È il caso, per esempio, dei trasporti – settore che ha particolarmente bisogno di liberalizzazioni – e delle nuove opportunità offerte dalle app come Uber. I taxisti avevano minacciato di scendere sul piede di guerra e, dunque, non se ne è fatto nulla. Ora, però, si è trovata la soluzione della delega: dopo il passaggio in commissione al Senato, il tema entra nel Ddl concorrenza, ma solo come impegno al Governo ad affrontarlo attraverso i decreti delegati. Liberalizzazioni che, dunque, arriveranno. Forse.
Il procedere al ralenty del disegno di legge – che rischia di non uscire dal Parlamento prima della fine dell’anno, considerato che la “navetta” ora dovrà tener conto della legge di Bilancio, che partirà a Montecitorio e terrà, a turno, le Camere inchiodate su quel testo – si scontra con gli effetti che le misure di competitività possono produrre. Non c’è occasione in cui ciò non venga ricordato. Lo ha fatto il Governo, quando ha approvato il Ddl e con l’occasione ha rammentato quanto stimato dal Fondo monetario internazionale, ovvero che le liberalizzazioni possono far crescere il Pil del 3,3% in 5 anni. Non solo: migliorano la credibilità del Paese, il suo rating e rappresentano un elemento importante nel giudizio della Commissione Ue sulle riforme.
Ancora prima era stata l’Antitrust a elogiare la concorrenza. Nel documento del luglio 2014, che ha dato l’innesco al Ddl, l’Authority sottolineava come «l’insufficiente conformazione concorrenziale di numerosi mercati di beni e servizi costituisce non solo un “costo” per consumatori e imprese, ma anche una delle principali determinanti dell’arretratezza del tessuto produttivo nazionale e un ostacolo significativo alla crescia economica». Moniti caduti, per ora, nel vuoto.
Antonello Cherchi – Il Sole 24 Ore – 19 settembre 2016