Una misura in bilico sulle pensioni degli italiani. L’Ape (l’anticipo pensionistico che il governo sta mettendo a punto) potrebbe rivelarsi il primo vero rimedio alla mannaia della riforma Fornero, restituendo flessibilità in uscita ad un sistema che ha bloccato al lavoro decine di migliaia di lavoratori, ma potrebbe anche sgonfiarsi in un clamoroso flop come finì a suo tempo il Tfr in busta paga. Tutto dipenderà dai costi e dalla convenienza del prestito concesso a chi, raggiungendo 63 anni nel 2017, intenderà anticipare il proprio pensionamento. Anticipo possibile fino a 3 anni e sette mesi rispetto all’età di vecchiaia.
Il governo si è impegnato ad accollarsi i costi dell’operazione per alcune categorie di lavoratori disagiati: i disoccupati che hanno esaurito gli ammortizzatori, i disabili, coloro che assistono parenti disabili o anziani non autosufficienti e alcune categorie impegnate in mansioni pesanti. Loro non pagheranno nulla, ma a patto che la pensione lorda sia compresa entro una certa soglia: probabilmente 1.500 euro lordi, ma la cifra balla ancora. Nel caso invece di aziende in crisi che ristrutturano, saranno esse stesse a finanziare l’anticipo forzato.
E per tutti gli altri? In questo caso i costi finanziari del prestito saranno a loro carico. Il governo ha finalmente messo un punto fermo sulle cifre. Eccole: anticipare di un anno il pensionamento costerà il 7% della pensione attesa: quindi per uscire dal lavoro 3 anni e sette mesi prima, si pagherà circa il 25%, tra restituzione del prestito, interessi e premio assicurativo.
Sgombriamo subito il campo da un equivoco che può nascere quando si assiste a una proposta che prevede di indebitarsi per poter andare in pensione prima. L’equivoco è credere che anticipare il proprio pensionamento sia un diritto, sempre e comunque. Ma si dimentica un calcolo elementare: se vado in pensione prima, prenderò l’assegno pensionistico per un numero maggiore di anni, creando così un costo aggiuntivo alla collettività. Dunque, se escludiamo quei lavoratori disagiati per cui l’anticipo diventa una necessità e che proprio per questo vanno agevolati, in linea di principio non è sbagliato prevedere che tutti gli altri debbano pagare qualcosa per l’onere aggiuntivo creato. Di qui l’idea del prestito. Chi parla quindi di “truffa” fa solo della demagogia. E il governo fa bene ad andare avanti.
Detto questo, però, nasce un dubbio di fondo. Il principio per cui chi crea un costo aggiuntivo (non dovuto a una necessità impellente ma a una scelta volontaria) debba contribuire a pagarlo, è giusto se applicato a tutti all’interno del sistema pensionistico. Sistema che invece è tutt’altro che equo, perché ha in realtà figli e figliastri. È ormai noto che chi è rimasto con il calcolo retributivo ha potuto andare in pensione negli ultimi decenni con trattamenti per un terzo non giustificati dai versamenti fatti. Ha cioè creato costi alla collettività senza pagarli o pagandoli solo in parte. Non dovrebbe essere applicato prima di tutto a lui il principio della sostenibilità finanziaria? Insomma, se venisse chiesto a quelle categorie privilegiate un contributo di solidarietà, con questo non si potrebbe finanziare tra l’altro anche l’anticipo pensionistico? È quanto sostenuto più volte dall’Inps, che sollecita una nuova riforma organica nel segno della equità. Ma da questo orecchio il governo non ci sente e pochi giorni fa lo stesso sottosegretario Nannicini ha smentito qualsiasi ipotesi di contributo sui pensionati più abbienti e privilegiati. Si perde così l’occasione di ripristinare un minimo di equità e di ridurre al minimo il costo di chi ora chiede di lasciare prima il lavoro.
Un secondo dubbio sull’Ape nasce poi quando si passa dal terreno dei principi a quello dei numeri. Se la percentuale dei costi da affrontare per avere il prestito sarà per tutti il 7% della pensione per l’anticipo di un anno e il 25% per tre anni e sette mesi, difficilmente chi matura una pensione da mille euro al mese potrà permettersi l’Ape. Dovrebbe infatti accettare di pagare come rata 250 euro al mese per i vent’anni del prestito. È vero che quel lavoratore potrebbe chiedere un prestito più basso della pensione attesa, ma in questo caso sarebbe la pensione anticipata (finanziata dal prestito) ad abbassarsi. È vero anche che il governo gli dà la possibilità di usare la previdenza integrativa accumulata per contribuire a rimpolpare la pensione anticipata (la cosiddetta Rita, rendita integrativa temporanea anticipata), ma questa compensazione varrebbe solo per una minoranza di lavoratori.
Insomma, il rischio è che a queste condizioni, ad accedere al nuovo sistema siano soprattutto le ali estreme: i disagiati da un lato e gli abbienti dall’altro, più difficilmente la classe medio-bassa. Diverso sarebbe il discorso se il governo volesse differenziare il costo percentuale a seconda della pensione attesa, riducendo il costo per i redditi meno elevati. E pagando l’onere aggiuntivo magari con un piccolo contributo di solidarietà sui più fortunati.
Repubblica – 17 settenbre 2016