Abbassare il costo del lavoro. Obiettivo di tutti i governi, ci prova ora l’esecutivo Renzi. A fine anno scadono gli incentivi per le nuove assunzioni, già ridotti di quasi due terzi, benzina essenziale nel motore del Jobs act. Occorre dunque decidere cosa fare, in sede di manovra finanziaria: prorogarli con ulteriore décalage per l’ultimo anno oppure mettere mano al taglio del cuneo fiscale, la differenza tra la retribuzione lorda e ciò che finisce in busta paga.
Un taglio strutturale, permanente, è nelle corde del governo. Già un anno fa il sottosegretario Nannicini aveva ipotizzato una sforbiciata di sei punti dei contributi previdenziali (che pesano per il 40% sullo stipendio), tre a carico dell’impresa e altrettanti del lavoratore. L’ipotesi su cui ora lavorano i tecnici prevede uno spostamento dello sconto, per due terzi a favore delle aziende e un terzo sui dipendenti. La misura non viene considerata troppo costosa – poco meno di 2 miliardi all’anno, ma per sempre – se limitata ai neoassunti. Al punto da considerarla alternativa alla proroga del bonus esistente e in pista di lancio già per il 2017. Oppure da inserire ora in manovra, ma a valere dal 2018.
In ogni caso, occorre dare un segnale, è il ragionamento. L’Ocse ci colloca al quarto posto su 34 per il peso di tasse e contributi sui lavoratori dipendenti, con un cuneo pari al 49% e in crescita dello 0,76% nel 2015, contro una media Ocse del 35,9%. La Spagna, per dire, è dieci punti sotto. Ecco dunque l’idea per una prima limatura di almeno mezzo punto. Un modo per invertire il trend e sostituire la “droga” del bonus con un segnale concreto alle imprese: assumete perché il lavoro stabile costerà meno e per sempre.
Sei punti percentuali di taglio ai contributi previdenziali si traducono in 1.440 euro di risparmio sul costo di un lavoratore che guadagna 24 mila euro lordi (cioè prima delle tasse), simula la Uil – Servizio politiche economiche. Questo tesoretto si può dividere equamente tra datore e dipendente (720 euro a testa). Oppure nella nuova opzione del governo a favore dell’impresa, per incentivarne le assunzioni: 960 euro (due terzi, quattro punti di cuneo) contro 480 (un terzo, due punti). Le finanze pubbliche coprirebbero – nel gergo “fiscalizzerebbero” – il minore esborso all’Inps delle aziende. Mentre il lavoratore avrebbe davanti a sé due scelte: incassare i 720 euro lordi in busta paga dove sarebbero tassati, 329 netti cioè 27 euro al mese in più, oppure riversarli alla previdenza integrativa.
Il nodo della questione è proprio quello previdenziale. Se il taglio dei contributi previdenziali pagati dal lavoratore non viene fiscalizzato, cioè ripianato dallo Stato, diventa un buco nella futura pensione. Dove sarebbe allora la convenienza del dipendente? Avere più liquidità nell’immediato. Oppure puntare ai fondi pensione. Con due vantaggi possibili: un eventuale miglior rendimento rispetto alla gestione Inps e la deduzione fiscale di cui gode questo tipo di investimento. È chiaro che il governo vuole incentivare il secondo pilastro previdenziale. Ma a quel punto dovrebbe favorirlo abbassando le tasse che lui stesso ha alzato sui fondi pensione, dall’11,5 al 20% due anni fa.
La Uil calcola che tagliare il costo del lavoro a dieci milioni di dipendenti privati – 4 punti alle aziende e due ai lavoratori costa a regime 10 miliardi. Solo 1,8 miliardi per i neoassunti. Se invece la ripartizione fosse 50-50 – tre punti in meno alle aziende e tre ai lavoratori – si scende rispettivamente a 7,5 e 1,4.
L’idea è superare il meccanismo degli sgravi del Jobs act che stanno segnando il passo Per un reddito medio di 24 mila euro l’anno un aumento in busta paga di circa 27 euro al mese
Repubblica – 29 agosto 2016