La gestione del personale che si rivelerà “di troppo” alla luce dell’obbligo di sfoltire la rete delle partecipate pubbliche è lo snodo più delicato della riforma, e ha già una data obiettivo: il 30 giugno del 2018. Dopo quella scadenza, le società potranno ricominciare ad assumere secondo le procedure ordinarie, senza più l’obbligo di dover pescare dagli elenchi degli esuberi tranne che per quel che riguarda profili professionali specifici e assenti fra le “eccedenze”.
La data, insieme alle modifiche profonde a cui è andato incontro nel corso dell’esame parlamentare l’articolo che il decreto dedica al problema degli esuberi, conferma che la questione è complessa e non si risolve con un colpo di bacchetta magica a effetto.
Anche perché le prime incognite riguardano le dimensioni del fenomeno. L’unico numero certificato disponibile è quello riportato dal dossier di Cottarelli, che all’epoca della “sua” spending review ha rielaborato i dati raccolti dal ministero dell’Economia arrivando alla conclusione che nelle partecipate lavorano 501mila persone. Il calcolo è probabilmente per difetto, perché una quota di società sfugge puntualmente ai censimenti nazionali, ma è abbastanza rappresentativo. I sindacati hanno parlato di un “rischio esuberi” per 150mila persone, ma al momento l’unica considerazione certa è che il problema è grande, ma è rischioso avventurarsi in numeri. Le tagliole automatiche scritte nel decreto colpiscono in prima battuta le mini-società prive o povere di personale, ma anche le aziende più grandi controllate dallo Stato o dagli enti territoriali sono chiamate a ridurre i propri organici per contenere i costi, e i processi di aggregazione che la riforma prova a spingere potranno avere effetti ulteriori sull’occupazione.
In ogni caso, il decreto nella sua versione finale accoglie i suggerimenti parlamentari sul punto ed evita di replicare l’elenco nazionale degli esuberi gestito dalla Funzione pubblica e già sperimentato per Province e Città metropolitane, perché le società rappresentano un panorama assai più articolato e soprattutto regolato da contratti estranei alla disciplina del pubblico impiego. Il primo passaggio resta quello della “ricognizione del personale in servizio”, che le società a controllo pubblico devono effettuare entro sei mesi per individuare le “eccedenze”. Il personale di troppo sarà affidato in prima battuta alle regioni, che dovranno favorire la mobilità incrociando la domanda e l’offerta di lavoro sul territorio con gli strumenti che saranno individuati da un decreto ulteriore di Economia e Funzione pubblica. Dopo sei mesi, la palla passerà all’Agenzia nazionale per il lavoro, che dovrà gestire gli esuberi che ancora rimangono con le politiche attive che nel frattempo saranno strutturate. Al personale in esubero, come prevede un’aggiunta fondamentale al testo originario del decreto, potranno essere applicati tutti gli ammortizzatori sociali previsti dalla riforma del lavoro e dalle normative regionali.
Diverso è il caso del personale che in origine era stato assunto dalla Pubblica amministrazione, ed è poi passato a un’azienda partecipata in seguito all’esternalizzazione del servizio. Se l’attività viene riportata all’interno dell’ente, per esempio perché la società strumentale non risponde ai parametri della riforma, questi dipendenti hanno una corsia preferenziale per la riassunzione nella Pa, che comunque non può derogare ai vincoli generali sul turn over e sulla spesa. Se però questi dipendenti hanno nel frattempo trasferito i loro contributi dall’ex Inpdap all’Inps, rischiano di dover pagare cara la ricongiunzione della loro storia previdenziale: si tratta di casi probabilmente non troppo diffusi, che però andranno affrontati.
G.Tr. – IL Sole 24 Ore – 15 luglio 2016