Per non incorrere in responsabilità, grava sul vettore l’onere di dimostrare, nel caso in cui la merce trasportata deperisca durante il viaggio, che la perdita o l’avaria delle cose che gli sono state consegnate per il trasporto «è derivata da caso fortuito, dalla natura o dai vizi delle cose stesse o del loro imballaggio». Lo ricorda la Corte d’appello di Napoli (presidente Giordano, relatore Cataldi), in una sentenza dello scorso 22 marzo.
La controversia è stata promossa da una Spa, che aveva commissionato a una Snc il trasporto di carni fresche. Al momento della consegna, la Spa aveva constatato che le mezzene suine e i quarti bovini erano macchiati e danneggiati, il che l’aveva costretta a interventi per evitare che il danno si propagasse agli strati più profondi della carne. Ciò aveva diminuito il valore commerciale della merce, che poi era stata venduta con notevoli sconti sui prezzi normalmente praticati. Poiché l’impresa di trasporti e la sua assicuratrice non le avevano risarcito i danni, la Spa ne aveva quindi chiesto la condanna al pagamento di 34 milioni di lire. Con sentenza del 2011, il Tribunale rigettava la domanda, sostenendo che la Spa non avesse provato la condizione della carne al momento della consegna al vettore.
Contro la decisione ha presentato appello la Spa, deducendo che il giudice di primo grado avesse violato le regole sul riparto dell’onere della prova in materia di contratto di trasporto. Secondo l’appellante, il Tribunale aveva errato anche nel valutare le prove, giacché l’istruttoria aveva dimostrato che il vettore aveva ricevuto la carne in buono stato.
La Corte accoglie l’impugnazione. Il giudice d’appello ricorda, innanzitutto, che l’articolo 1693 del Codice civile dispone che, per non incorrere in responsabilità, il vettore deve provare che la perdita o l’avaria delle cose che gli sono state consegnate per il trasporto «è derivata da caso fortuito, dalla natura o dai vizi delle cose stesse o del loro imballaggio», oppure «dal fatto del mittente o da quello del destinatario». È dunque il vettore – afferma la Corte – a dover fornire la prova che l’inadempimento e il danno sono dovuti «a un evento, positivamente identificato, a lui estraneo e non imputabile»; tant’è che il comma 2 dello stesso articolo 1693 dispone che, se il vettore accetta le cose da trasportare senza riserve, si presume che le stesse non presentino vizi apparenti d’imballaggio. E ciò vale a maggior ragione per gli alimenti non confezionati, che «già alla vista o al tatto (come nel caso di specie)» possono segnalare un cattivo stato di conservazione.
Peraltro, le prove assunte in primo grado comunque dimostravano che il danneggiamento della merce fosse avvenuto durante il trasporto a causa di un’interruzione della «catena del freddo». Infatti, il veterinario che aveva ispezionato le carni aveva confermato che l’alterazione era legata all’innalzamento della temperatura, dovuto al cattivo funzionamento del frigorifero del vagone coibentato.
Secondo la Corte campana, inoltre, «appaiono estremamente significative le stesse lettere di vettura sottoscritte dal conducente» della ditta di trasporti, che non contenevano alcuna annotazione nello spazio destinato a eventuali riserve o osservazioni del trasportatore.
Ragioni, queste, che giustificano la condanna del vettore al risarcimento del danno, che la Corte d’appello liquida in 18mila euro, oltre rivalutazione e interessi, nonché al pagamento delle spese dei due gradi del giudizio in favore della Spa.
Antonino Porracciolo – Il Sole 24 Ore – 30 giugno 2016