La sentenza della Corte di cassazione (n. 11868/2016), che ha escluso l’applicabilità verso i dipendenti pubblici delle modifiche introdotte dalla legge Fornero all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori rende, ancora più complicata la “geografia” dei regimi normativi applicabili ai casi di licenziamento.
Il quadro normativo sembrava essersi semplificato con la sentenza della Corte di Cassazione n. 24157 del 25 novembre 2015, che aveva affermato un principio opposto, riconoscendo la completa parificazione, almeno per i lavoratori assunti prima dell’entrata in vigore del Jobs Act, dei regimi applicabili al lavoro pubblico e a quello privato.
Con la nuova sentenza, questa parificazione viene meno (anche se non possono escludersi ulteriori ribaltoni giurisprudenziali). Seguendo il ragionamento dei giudici, ai dipendenti pubblici continua ad applicarsi, fino a quando non sarà espressamente modificato, l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori nella versione originaria, senza le modifiche introdotte dalla legge 92/2012 (restando in vita, quindi, la regola che sanziona il licenziamento invalido esclusivamente con la reintegrazione sul posto di lavoro).
Non è chiaro se questa norma vale anche per i lavoratori pubblici assunti dal 7 marzo 2015, data in cui è entrato il vigore il decreto sulle tutele crescenti: da più parti si esclude questa applicabilità, ma la legge tace al riguardo, e quindi è probabile che il contenzioso attuale si riprodurrà in termini simili anche rispetto a tale platea.
Diversa è la situazione per i licenziamenti intimati nei confronti dei lavoratori privati, per i quali il regime applicabile dipende dalla data di stipula del contratto a tempo indeterminato. Se l’assunzione è evvenuta entro il 6 marzo 2015, si applica l’articolo 18, ma nella versione modificata dalla legge Fornero (quindi, con la sanzione esclusivamente risarcitoria, salvo casi specifici); questi licenziamenti devono essere preceduti dalla conciliazione in Dtl, se fondati su motivi organizzativi ed economici, e le cause che li riguardano seguono il rito speciale introdotto dalla legge Fornero.
Invece, per i lavoratori privati assunti dal 7 marzo 2015 in poi si applica integralmente il regime delle “tutele crescenti” (tutela risarcitoria pari a due mensilità per ogni anno di lavoro, da un minimo di quattro sino a un massimo di 24, reintegrazione limitata a casi eccezionali come il licenziamento disciplinare fondato su un fatto materiale insussistente oppure su ragioni di natura discriminatoria) introdotto dal Dlgs 23/2015.
I licenziamenti intimati verso questi lavoratori non devono essere preceduti dalla conciliazione in Dtl (ma si può usare la nuova conciliazione facoltativa, che consente di defiscalizzare le somme pagate a titolo conciliativo in misura pari a una mensilità per ciascun anno di lavoro sino a un massimo di 18) e in giudizio seguono il rito ordinario (e non quello introdotto dalla legge Fornero).
Anche per i licenziamenti collettivi ci sono regimi diversi: per gli assunti dal 7 marzo 2015 in poi si applica il decreto sulle tutele crescenti (quindi, con la limitazione a casi eccezionali della tutela reintegratoria), per le persone assunte prima di tale data valgono ancora le regole precedenti contenute nell’articolo 18 e riformate dalla legge Fornero (in virtù delle quali la reintegrazione continua ad applicarsi per i casi di violazione dei criteri di scelta).
La convivenza di regole vecchie e nuove interessa anche i dipendenti di partiti, sindacati e organizzazioni di tendenza: per i “vecchi assunti” continua ad applicarsi la regole che escludeva l’operatività dell’articolo 18, mentre per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 si applicano in maniera integrale le regole delle tutele crescenti.
Difficile spiegare razionalmente le ragioni di questa grande complessità e varietà delle regole; un assetto che sicuramente non agevola la competitività del nostro ordinamento e rende la vita difficile a chiunque debba gestire il personale.
Linea tracciata sull’articolo 18 nella Pa. Il primo presidente della Cassazione Canzio sulla non applicabilità della legge Fornero
Sull’applicazione del “vecchio” articolo 18 ai dipendenti pubblici, la Cassazione non tornerà sui suoi passi e non è nemmeno necessaria una pronuncia delle sezioni unite. A spiegarlo è stato Giovanni Canzio, primo presidente della Corte di cassazione, che ha coordinato una tavola rotonda nella giornata conclusiva del congresso nazionale Agi (avvocati giuslavoristi italiani) che si è svolto a Perugia.
Giovedì scorso, con la sentenza 11868/2016, i giudici hanno stabilito che ai dipendenti pubblici, in caso di licenziamento illegittimo, non si applica l’articolo 18 post riforma Fornero (legge 92/2012), ma la versione precedente, fino a quando i due regimi non verranno armonizzati. «La sentenza – ha affermato Canzio – è stata pronunciata dalla sezione lavoro dopo approfondita riflessione e con decisione unanime, quindi una sorta di sezioni unite». Questo significa che la sentenza 24157/2015, con cui la stessa Cassazione si è espressa in senso contrario alla fine dell’anno scorso, è superata, come spiega ancora Canzio: «Alle sezioni unite si va quando c’è contrasto di giurisprudenza tra sezioni o all’interno di una sezione. Ma se la sezione specializzata, dopo aver ampiamente dibattuto al suo interno, perviene a una decisione unanime e stabilizza l’interpretazione, non avrà più contrasti. Ecco perché la definisco una sorta di sezioni unite».
Il primo presidente ritiene inoltre che la differenza normativa tra dipendenti del settore privato o pubblico non sia a rischio di incostituzionalità, come ipotizzato, tra gli altri, dal presidente Agi Aldo Bottini, perché i due ambiti sono diversi e si è tenuto conto di ciò.
Proprio dal presidente della Corte costituzionale, Mario Morelli, che ha partecipato alla tavola rotonda insieme ad Antonio Tizzano, vicepresidente della Corte di giustizia dell’Unione europea, a Guido Raimondi, presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo, e a Giuseppe Bronzini, componente della sezione lavoro della Cassazione, è arrivato uno spunto che potrebbe accendere il rapporto tra giudici di legittimità e legislatore. In riferimento alla più che decennale vicenda del riconoscimento dell’anzianità di servizio al personale Ata della scuola trasferito nel 1999 dagli enti locali allo Stato, e alla norma di interpretazione autentica retroattiva introdotta con la legge 266/2005, Morelli ha chiesto a Canzio: «Perché la Cassazione, alla quale è affidata l’uniforme interpretazione della legge, in questi casi non promuove un conflitto di attribuzione tra poteri davanti alla Corte costituzionale?».
«In linea teorica – ha commentato Canzio – non è impedito sollevare un conflitto di attribuzioni in casi simili. Nel caso concreto, però, è necessario un approfondimento e il conflitto deve essere sollevato dal giudice chiamato a decidere l’applicazione della norma, un giudice di Cassazione o se fosse a sezioni unite molto meglio».
Proprio la vicenda del personale Ata è un esempio del rapporto, a volte difficile, tra le due alte corti nazionali e quelle internazionali, tema a cui è stata dedicata la tavola rotonda finale del congresso. Sulla vicenda si sono susseguiti decisioni contrastanti di Cassazione, Consulta e Cedu, alimentando un contenzioso durato anni.
Sul fronte italiano, e più specificatamente lavoristico, è stato ricordato che la sezione dedicata della Cassazione ha 22mila ricorsi pendenti, a fronte di un totale di 106mila, ma che c’è un trend leggermente discendente delle sopravvenienze, anche per effetto della crescita della negoziazione e delle soluzioni stragiudiziali. Bronzini ha sottolineato che, per cercare di dare risposta in tempi ragionevoli, la sezione è stata divisa in sottogruppi, anche con l’obiettivo di avere sentenze coerenti tra loro e si punta a decidere con rapidità soprattutto i licenziamenti, anche se su questa materia, dopo gli interventi della legge 92/2012 e il Jobs act, le valutazioni non sono facili.
Il Sole 24 Ore – 12 giugno 2016