Michele Bocci. Salvano la vita ma non vengono messi a disposizione di tutti i cittadini. E anche quando sono offerti, c’è chi non si presenta per farli. Gli screening oncologici restano i grandi incompiuti della sanità italiana: rappresentano un pezzo importante delle politiche di salute pubblica ma non sfondano. Negli anni si vede una lieve, costante, crescita della loro diffusione ma siamo ancora lontani dalle percentuali di altri Paesi, specie del Nord Europa. E poi l’offerta da noi è ancora troppo variabile a seconda delle zone, con il sud che rimane indietro.
In Italia ci sono realtà dove le chiamate agli esami si fermano al 30 e 35% ma anche al 3, al 6 o all’8% delle fasce di popolazione considerate a rischio. Cioè sono pochissime. Dei guai di questo strumento di prevenzione si è parlato a fine aprile, quando il rapporto Osservasalute dell’Università Cattolica di Roma lo ha messo in relazione, insieme ad altri fattori, al calo dell’aspettativa di vita (circa 3 mesi in meno per uomini e donne). Si tratta probabilmente di una forzatura, perché per poter valutare i danni di una bassa adesione agli esami che intercettano il cancro ci vuole molto tempo e oltretutto in Italia il dato segna una lieve crescita. È però vero che gli screening potrebbero funzionare molto meglio. Sono tre quelli svolti dal sistema sanitario: per il cancro alla mammella, per quello del colon-retto e per quello della cervice uterina. Gli ultimi dati a disposizione sono del 2014 e per la prima volta sono stati divisi per regione invece che per macro aree (nord, centro e sud e isole). Raccontano di un Paese dove da un lato gli stessi sistemi sanitari spesso non riescono a chiamare tutte le persone a rischio e dall’altro ci sono appunto cittadini che non si presentano. «Questo avviene in particolare al sud. La mancata risposta ha a che fare con i problemi di credibilità nei confronti della sanità da parte dei cittadini di certe regioni». Marco Zappa è il presidente dell’Osservatorio nazionale screening, che ogni anno raccoglie i dati e li consegna al ministero. Talvolta il motivo della mancata presentazione è ancora più banale. Magari la Asl sbaglia a mandare le lettere di convocazione oppure le invia troppo prima o troppo a ridosso dell’esame, ad esempio il giorno precedente, rendendo impossibile la partecipazione. Che fine fa chi non risponde? In alcuni casi si rivolge al privato. «Ci sono però indagini – dice sempre Zappa – che dimostrano come circa il 20% delle persone considerate a rischio facciano a pagamento gli esami degli screening, cioè mammografie, ricerca sangue occulto nelle feci e pap test. Il dato è uguale per tutte le regioni e perciò sia al sud che al nord, visto che l’80% di copertura non lo raggiunge nessuno, qualcuno resta fuori, cioè non fa controlli». E rischia di ammalarsi. L’anno scorso gli screening per il tumore alla mammella, quelli che hanno i dati migliori, hanno trovato 7.300 neoplasie. E le donne tra i 50 e i 69 anni alle quali sono stati fatti gli esami (previsti ogni 2 anni) sono state il 42% del totale. È lampante che con un’estensione maggiore dello screening le diagnosi sarebbero state di più. Per il cancro alla cervice uterina, che si intercetta con il pap test proposto ogni tre anni alle donne tra i 25 e i 64, c’è sicuramente una altissima quota di persone che non si presentano perché hanno già fatto il controllo dal proprio ginecologo. Tra chi si è fatto vedere nel servizio pubblico nel 2014, circa il 30% delle donne a rischio, sono stati trovati 3.600 tumori.
«Per il colon la situazione è più preoccupante – dice sempre Zappa – Infatti in questo caso è molto più raro che i cittadini che non vengono chiamati a fare lo screening o non si presentano malgrado l’invito facciano l’esame nel privato». L’analisi che intercetta questo tumore è offerta a chi ha tra i 50 e i 70 anni una volta ogni due anni e nel 2014 è stata in grado di riconoscere quasi 20mila problemi. Anche in questo caso il numero di soggetti a rischio coinvolti è stato basso: 29%. Questo screening è stato introdotto più di recente, nel 2005 ed è quello con più carenze. La Puglia ha convocato appena il 3% dei cittadini a rischio, cioè praticamente non lo fa. Ma vanno male anche Calabria (6%), Campania (23%), Lazio e Abruzzo (46%). Marche e Molise interpellano tutti i cittadini nella fascia di età interessata ma trovano sfiducia. Rispondono infatti in meno di un terzo dei convocati. Nel Lazio le risposte sono al 24%, significa che appena l’11% dei cittadini tra i 50 e 70 anni fanno il controllo.
«Quale sarebbe la situazione ideale? Cento per cento di interpellati ovunque, ovviamente, e risposte tra il 60 e il 70%. Saremmo al livello di altri Paesi europei. E invece stentiamo, la partecipazione per colon retto e cervice deve migliorare anche al nord, mentre per la mammella i problemi sono quasi solo al sud», dice Marco Zappa. Dal 2009 gli screening sono entrati nei criteri di valutazione dei lea, i livelli essenziali di assistenza. Servono cioè insieme ad altri indicatori a valutare il funzionamento dei sistemi sanitari regionali assegnando punteggi a seconda della qualità dell’offerta. La circostanza ha fatto aumentare l’attenzione verso questo strumento da parte delle regioni. A seconda delle percentuali di copertura viene dato un punteggio. Il massimo è 5 per chi supera il 50% per colon retto e cervice e il 60% per la mammella (percentuali più basse di quelle indicate dalla letteratura internazionale). Solo quattro regioni prendono 15 punti, cioè superano le soglie in tutti e tre gli screening: Veneto, Valle d’Aosta, Emilia e Friuli. La Calabria si ferma a 1, la Puglia a 2, Sicilia, Lazio e Campania a 3. La prevenzione del cancro in Italia deve fare ancora tanta strada.
Repubblica – 27 maggio 2016