Dimostrare all’Europa che il debito scende quest’anno e il prossimo. E ottenerne in cambio nuova flessibilità. Eventualmente giocando la carta estrema: la non completa sterilizzazione delle clausole di salvaguardia per il 2017 da 15 miliardi. Dunque mettendo sul tavolo, se mai ce ne fosse bisogno, un piccolo aumento dell’Iva, mirato e dal basso impatto con l’inflazione così sgonfia, magari riformandone la composizione (oggi ci sono tre aliquote), per finanziare con gli introiti un taglio dell’Irpef. Meno tasse sul reddito, poco di più sulle cose. Proprio come vuole Bruxelles, da sempre.
La filosofia di fondo del Documento di economia e finanza che il governo si appresta a varare nel Consiglio dei ministri dell’8 aprile, accompagnato dal Programma nazionale delle riforme, è proprio questa: dimostrare che i compiti a casa l’Italia li ha fatti e che la flessibilità non può durare solo un anno. In questo senso, un assist formidabile al governo è arrivato proprio ieri dal Centro Studi di Confindustria che in una nota dall’inconsueto sapore politico, a poche ore dall’elezione del nuovo presidente degli industriali, denuncia i «gravi limiti» della clausola Ue per le riforme che «così com’è non funziona». Perché ha «dimensione ridotta » (al massimo lo 0,5% del Pil), si concentra «in un solo anno » e soprattutto impone un rientro del maggior deficit troppo rapido (in tre anni).
In questo modo si rischia «di azzerare l’efficacia delle riforme stesse» perché «si mina il consenso politico». Ma se «aumenta la probabilità del rigetto delle riforme» questo «rende più instabile il quadro politico». E l’instabilità, sottolinea in più passaggi Confindustria, «può far cadere i governi riformatori e affermare elettoralmente gli oppositori delle riforme, i quali finiscono poi per abolirle». Una critica molto forte all’Europa, dunque. E un sostegno pieno all’azione del governo Renzi.
«La Commissione europea parla di incentivi permanenti», osserva però il viceministro all’Economia Enrico Morando. «Se fossero una tantum, sarebbe un non senso perché le riforme strutturali, come il Jobs Act, la buona scuola, la Pubblica amministrazione sono nell’interesse anche dell’Europa ». E il ragionamento prosegue: «Se facciamo nuovi investimenti e nuove riforme, siamo dentro la strategia europea di politica economica, non ne tradiamo le regole, e dunque abbiamo tutto il diritto di invocare flessibilità anche per l’anno prossimo. Se gli investimenti e le riforme fossero sempre gli stessi, l’Europa avrebbe il sacrosanto diritto di dirci di no. Ma se invece sono nuovi, come quelli che proporremo all’attenzione di Bruxelles, come motivare il no? In ogni caso, una risposta è inaccettabile: abbiamo già dato, non chiedeteci altro ».
La linea Roma-Bruxelles torna dunque rovente. Lo sforzo di queste ore, raccontano i tecnici alle prese col Def, è di dimostrare con i numeri che il rapporto tra debito e Pil scenderà, seppur di pochissimo già quest’anno, visto anche il Pil ridimensionato (+1,3% anziché +1,6%). Per questo si prevede un’inflazione allo 0,9-1%, fin qui ottimistica. Ma si spera nell’effetto Draghi. E in un po’ di fortuna. D’altro canto, senza “scollinare” la montagna del debito, anche di un’inezia, la trattativa con Bruxelles neanche si apre. E Palazzo Chigi lo sa bene.
Repubblica – 30 marzo 2016