Alberto Mattioli. Sei gatti per ogni umano? Praticamente, è la proporzione perfetta, considerando che in media un umano è sei volte più molesto di un gatto. Per i gattolici credenti e praticanti, il Paradiso c’è ed è su questa terra, anche se non esattamente a due passi: l’isola di Aoshima, prefettura di Ehime, Sud-Ovest del Giappone, un chilometro e mezzo di terra senza hotel, ristoranti, automobili e con appena 22 residenti umani. In compenso, ci sono 120 gatti. Dev’essere un posto meraviglioso. Lì i gatti non sono ospiti, ma padroni di casa. Cat power, finalmente.
Le fotografie sono impressionanti, forse anche leggermente inquietanti: gatti ovunque, in massa, in folla, un assembramento, una ressa di gatti, più fitti dei cinesi nella metropolitana di Pechino all’ora di punta o dei parlamentari dell’Ncd in Transatlantico quando si parla di un rimpasto di governo.
La Festa
Più modestamente, in Italia, domani, 17 febbraio, è la Festa del gatto. Intanto perché è il 17, anzi XVII, anagrammato dà VIXI, ho vissuto, e com’è noto ogni gatto ha sette vite da vivere; e poi perché febbraio è il mese dell’Acquario, segno degli esseri liberi e anticonformisti, e nessuno è più libero e anticonformista di un gatto. Invece ad Aoshima la festa coi baffi dura tutto l’anno. È il bel paese dove il miao suona. I gatti occupano le abitazioni abbandonate, colonizzano ogni spazio pubblico e privato e dominano il porto, dove tutti i giorni, unico contatto con il resto del mondo, arriva un ferry e sbarca il suo carico di 34 turisti, di più non ce ne stanno, che vengano a visitare la «Neko no shima», l’isola dei gatti, quel pezzettino di Impero giapponese che è diventato l’Impero del gatto.
In effetti, Aoshima è popolata da 380 anni, per lo più da pescatori e ovviamente di gatti, a suo tempo importati per dare la caccia ai topi. Il picco di abitanti, intendendo i bipedi, fu raggiunto nel 1945, quando arrivarono sull’isola gli sfollati in fuga dai bombardamenti americani: 900 residenti. Da allora, è stato un continuo declino, finché l’isola non si è quasi interamente spopolata, come certi paesini italiani sugli Appennini o nel profondo Sud. Man mano che gli uomini emigravano o morivano, la colonia dei gatti cresceva e si moltiplicava, fino al boom degli ultimi dieci anni, quando i mici, in pratica, hanno preso il controllo della località.
È stato un golpe demografico, in assenza di predatori pericolosi e di controllo delle nascite. L’unica infermiera locale fa in pratica la veterinaria, ma i gatti sterilizzati sono appena una decina, quindi la popolazione felina continua a crescere ed è diventata una (moderata) attrazione turistica. Pare però che i residenti, quasi tutti anziani, non ne siano entusiasti e preferiscano essere lasciati in pace, tutti intenti alla loro nobile missione di accudire i gatti.
I santuari
Aoshima non è l’unica «isola dei gatti» giapponese. Il «Washington Post» ne ha contate undici, fra le quali Tashiro-jima, dove addirittura ai mici sono state erette 51 statue e consacrati dieci santuari. Cose che capitano in quello che non è solo il Paese del Sol Levante, ma anche del «Maneki neko», la statuetta del gatto portafortuna che imperversa ovunque, dei cartoni animati di Hello Kitty e dei «Neko café», i caffè dei gatti dove a disposizione dei clienti ci sono anche dei gattoni da coccolare (un’idea esportata anche nel resto del mondo, Italia compresa). E nelle foto della famiglia dell’erede al trono, oltre alla moglie principessa triste, ai figli e a un unico crisantemo, fiore nazionale, in un unico vaso (insomma, il trionfo del minimal chic), compare anche il gatto principesco (e per la verità anche il cane, perché non bisogna scontentare nessuno) che, essendo un gatto giapponese, posa perfettamente immobile e disciplinato.
Niente male davvero. Come dice il protagonista di Io sono un gatto di Natsume Soseki (1905), primo grande romanzo «moderno» della letteratura giapponese e suo indiscusso capolavoro: «Gli umani, per quanto forti, non saranno in auge per sempre. Meglio attendere tranquillamente l’ora dei gatti». Ad Aoshima è già arrivata.
La Stampa – 16 febbraio 2016