Via le società che negli ultimi tre anni hanno fatturato meno di un milione di euro. Chiuse anche quelle che hanno un numero di dipendenti inferiore al numero di amministratori. E ancora quelle che si occupano della produzione di beni e servizi, a meno che l’80% o più dei loro ricavi arrivi dal Comune che le controlla.
Da chiudere anche le aziende che, come forma giuridica, non sono società per azioni o società a responsabilità limitata. Il governo torna alla carica per tagliare le partecipate dagli enti locali, le vecchie municipalizzate, con l’obiettivo dichiarato di ridurne il numero dalle quasi 8 mila di oggi a circa mille.
È un percorso a tappe quello disegnato dal decreto attuativo della riforma della pubblica amministrazione che dovrebbe presto arrivare in consiglio dei ministri. Dovrebbe perché il testo fa parte del pacchetto di dieci decreti atteso per la riunione di domani. Anche se, in serata, sono cresciute le quotazioni di un nuovo rinvio, dopo quello di metà dicembre.
Su alcuni punti, però, il testo sembra consolidato. Entro sei mesi tutte le amministrazioni locali dovranno fare una ricognizione delle loro società, con l’obbligo di chiudere o liquidare entro un anno quelle che non rispettano i nuovi requisiti. Le stime dicono che a questa prima scadenza le società da chiudere dovrebbero essere circa 2 mila. Ogni anno, poi, le stesse amministrazioni dovrebbero preparare un piano di ulteriore razionalizzazione delle loro partecipazioni. Basterà? I tentativi fatti finora per tagliare i rami del vecchio capitalismo municipale sono andati a vuoto. La legge di Stabilità dell’anno scorso diceva che Comuni e Regioni avrebbero dovuto trasmettere alla Corte dei conti un piano di razionalizzazione delle società. Ma, senza sanzioni, non si è mossa una foglia. Adesso viene creato un organo di vigilanza presso la presidenza del consiglio che potrà attivare anche ispezioni presso tutte le società per verificare il rispetto dei nuovi requisiti. E, in caso di gravi irregolarità, potrà portare anche all’amministrazione straordinaria o alla liquidazione.
Il meccanismo è comunque complesso. Per questo viene affiancato da una serie di incentivi economici alla fusione delle società, che riguarda i settore «industriali» delle municipalizzate: energia, rifiuti e trasporti. In un altro decreto attuativo del pacchetto si dice che i Comuni che dismettono quote di partecipazione possono usare l’incasso per fare investimenti senza che quei soldi vengano conteggiati nel patto di stabilità interno, i paletti alla spesa che devono garantire la tenuta dei conti pubblici. E soprattutto viene messo a disposizione mezzo miliardo di euro in due anni per quei Comuni che decidono di accorpare le loro società, in modo da fornire un servizio ad almeno 150 mila persone. Il «premio» dovrà essere usato sempre per investimenti e resterà fuori dal patto di stabilità. Un incentivo non di poco conto che però in queste ore sarebbe oggetto di un approfondimento tecnico. C’è il rischio che una misura del genere possa essere considerata aiuto di Stato, secondo le regole dell’Unione europea.
Successe già nel 1992, ai tempi del governo Amato, quando proprio per spingere sull’accorpamento delle ex municipalizzate lo Stato consentì alle aziende che si fondevano tra loro di detrarre un parte dell’allora Irpeg, la tassa sulle persone giuridiche. Una misura poi bocciata da Bruxelles con relative multe da pagare in carico alle aziende. Adesso si vuole evitare lo stesso errore. Ma c’è anche un altro punto da approfondire, che riguarda le società partecipate non dai Comuni ma dallo Stato. Il testo prevede che le nuove società debbano avere un amministratore unico he, solo in alcuni casi, possa esserci un consiglio d’amministrazione con massimo 5 componenti. Ma la novità che fa discutere è un’altra: il controllo sulle società, e anche sulle nomine, passerebbe dal ministero dell’Economia a Palazzo Chigi.
Lorenzo Salvia – Il Corriere della Sera – 14 gennaio 2016