Non conosce pace, né fine, né niente di buono l’ormai annosa, intermittente e anche abbastanza triste vicenda degli stipendi dei dipendenti di Montecitorio, che ieri hanno dichiarato lo stato di agitazione.
Anche quest’anno l’ufficio di presidenza si prepara infatti a confermare il taglio delle indennità di funzione che insieme ad altre misure, nella loro indecifrabile complessità, comunque alleggeriscono la busta paga di questi particolari lavoratori assunti per concorso e da sempre, per esigenze di mestiere, interni al Palazzo e come tali molto vicini al potere. Un tempo anche assai privilegiati, oggi economicamente appena un po’ meno, comunque rappresentati da ben otto sigle sindacali che, insieme ai loro colleghi del periclitante Senato, arrivano a superare le venti – e anche questo spezzatino, se non favorisce la lotta, certo la rende vieppiù complicata.
Sennonché la classe politica ha un dannato bisogno di risparmiare, ma più ancora di mostrarsi virtuosa quanto a spese. Sapendolo meglio di chiunque altro, o in maniera meno rispettosa conoscendo come nessun altro i loro polli, ecco allora che operai, inservienti, commessi, impiegati, documentaristi, ma anche funzionari, consiglieri e burocrati di media e alta caratura hanno lanciato ieri una specie di brusco altolà ventilando i rischi di una «condotta antisindacale». Questo porterebbe al proseguimento di una sorta di infinita guerriglia para e meta- giudiziaria con la partecipazione straordinaria di misteriosi organismi interni, oltre che dell’immancabile Tar del Lazio, del Consiglio di Stato e magari perfino della Consulta. Tutto ciò che riguarda Montecitorio è infatti sottratto ai vincoli della legge ordinaria, secondo i canoni di un principio giuridico costituzionale che risponde al nome di «autodichia». Su questo piano i rivoltosi non solo la sanno lunga, ma hanno pure buoni avvocati, per giunta ex parlamentari, come quell’onorevole Paniz (Forza Italia) che nel suo palmares può vantare di aver fatto trangugiare alla maggioranza della Camera l’identificazione di Ruby come nipote di Mubarak.
Ma la novità, come sempre in questi casi relativa, è che nei rapporti interni insieme all’abituale consuetudine è venuto meno anche l’antico rispetto. Tale esito può farsi risalire agli ultimi giorni del luglio 2014, quando il solitamente ovattato corridoio dei busti fu invaso dalle grida di una moltitudine di dipendenti che parvero quasi prendere d’assedio l’ufficio di presidenza nel corso delle sue deliberazioni.
Ci furono allora buuuu-buuuu, sarcasmi volanti e beffardi coretti («Bravi!», «Bis!», «Grazie!»). La maggior parte se li accollò la vicepresidente Marina Sereni, Pd, che più aveva lavorato sui provvedimenti di spending review. Ma anche la presidente Boldrini si disse «dispiaciuta e rattristata», ma tenne il punto – pure facendo notare che proprio in quei giorni sotto Montecitorio c’era un presidio di lavoratori che, assai meno fortunati di loro, protestava contro il mancato finanziamento della cassa integrazione in deroga (ieri c’erano i dipendenti comunali, mentre rischiano il posto oltre 250 lavoratori posti a contratto dalle ditte di sub-appalto dei palazzi a suo tempo incautamente affittati dall’amministrazione di Montecitorio).
Ma niente. Piovvero 1200 ricorsi e sempre in piena estate e a sfregio, per così dire, la Commissione giurisprudenziale per il personale della Camera, peraltro composta da tutti onorevoli del Pd, diede ragione ai ribelli. Stavano dunque per saltare tutti i risparmi, ma sempre in agosto Boldrini e gli altri dell’ufficio di presidenza fecero appello riuscendo in extremis a sospendere la sentenza con un decreto cautelare d’urgenza che salvava i tagli.
E qui più o meno si fermava la storia. Che tuttavia, nel merito, non tiene forse nel debito conto l’indistinta severità, per non dire la rabbia che ispirano oggi i costi del palazzo; ma anche il ruolo immiserito del Parlamento, miniatura purtroppo di se stesso, tanto più obbligato a riscattarsi quanto più vittima del suo antico rango e perduto.
Repubblica – 22 dicembre 2015