Nessun diritto all’oblio se le notizie di cui si chiede la cancellazione sono recenti, di sicuro largo interesse, relative a una persona che esercita un ruolo pubblico. Se poi invece della cancellazione se ne sollecita la correzione, perché false, allora la domanda non va indirizzata a Google ma ai gestori dei siti.
Sono queste le conclusioni cui approda la sentenza della Prima sezione civile del tribunale di Roma del 3 dicembre. Una delle primissime, se non la prima in assoluto che affronta davanti all’autorità giudiziaria le conseguenze della pronuncia della Corte di giustizia Ue del 13 maggio 2014. Con quella sentenza è stato previsto l’obbligo, per un motore di ricerca, di rimuovere dai propri risultati (deindicizzazione) i link a quei siti che sono ritenuti dagli interessati lesivi del loro diritto all’oblio, ottenendo la cancellazione dei contenuti delle pagine web che, secondo l’interessato, offrono una rappresentazione non più attuale della propria persona.
Diritto, quello alla privacy, che però non è assoluto e va invece bilanciato, caso per caso, con il diritto di cronaca e con l’interesse pubblico alla conoscenza dei fatti.
Bilanciamento e scelta da fare davanti al Garante della privacy, che in questo anno è mezzo è intervenuto più volte sul tema, oppure alla magistratura, e qui invece mancano i precedenti. Al tribunale di Roma si era rivolto un avvocato perchè venisse imposto a Google (difesa dagli avvocati Massimiliano Masnada e Marco Berliri dello studio Hogan Lovells) di rimuovere 14 link che risultavano da una ricerca effettuata con riferimento il proprio nome, nei quali era contenuto il riferimento, sosteneva il legale, a una passata vicenda giudiziaria, conclusasi peraltro senza che mai fosse stata pronunciata una condanna a suo carico.
Il giudizio del tribunale, che ripercorre i passaggi chiave della formalizzazione di un vero e proprio diritto all’oblio e della successiva fase applicativa, con riferimento alle decisioni del Garante, respinge la richiesta di cancellazione. Innanzitutto, quanto al centrale elemento cronologico, le notizie individuate dal motore di ricerca sono «piuttosto recenti», visto che risalgono al non lontano 2013, e i relativi fatti sono pertanto ancora attuali.
Tanto più che, sottolinea la sentenza, la vicenda è di sicuro interesse pubblico, visto che riguarda un’importante indagine giudiziaria che ha coinvolto numerose persone e che non risulta essersi ancora conclusa, mancando una documentazione in questo senso (archiviazioni, sentenze favorevoli). «I dati personali riportati – conclude sul punto la pronuncia – risultano quindi trattati nel pieno rispetto dell’essenzialità dell’informazione».
Quanto alla ruolo pubblico, questo è attribuito dalla professione svolta e dall’albo di iscrizione: si tratta infatti di un avvocato, che svolge la professione in Svizzera. Infatti, «tale ruolo pubblico non è attribuibile al solo politico, ma anche agli alti funzionari pubblici ed agli uomini d’affari (oltre che agli iscritti in albi professisonali)».
Per la falsità delle notizie veicolate dai siti visualizzabili per effetto della ricerca su Google, quest’ultimo non è, per i giudici, responsabile. Lo potranno essere i gestori dei siti stessi.
Giovanni Negri – Il Sole 24 Ore – 9 dicembre 2015