Carlo Cambi, da Libero. Comunque vada sarà un successo. Questo ci consegnano le cronache alla chiusura dell’Expo. Record di visitatori, zero emergenze e l’Italia ha tirato un sospiro di stupore: anche noi siamo capaci di fare e bene le cose in grande. Non c’è dubbio che il commissario unico Giuseppe Sala esce di scena da salvatore della Patria e che malgrado la corsa di troppi – per primo di Matteo Renzi – ad intestarsi le glorie di questa esposizione universale, a lui, al suo staff, alla capacità di Milano di essere l’unica città a dimensione mondiale debba essere ascritto il merito d’essere andati al di là di ogni ostacolo.
Ora sono molti a salire sul carro dei vincitori, che però non è trainato dai buoi. Troppi si sono nascosti dietro la “Laudato sì” di Papa Francesco per dire che abbiamo imposto una visione nuova del mondo, troppi hanno creduto che la “Carta di Milano” fosse il velo programmatico sotto il quale nascondere le miserie del mondo e lo scontro terribile che si vive non tra miseria e consumismo, ma per accaparrarsi la fame del mondo ben consapevoli che chi controlla la fame controlla gli uomini. Da questo punto di vista l’Expo è stata un fallimento planetario e risalta, colpevole e miope, quello dell’Italia. Con buona pace del presidente della Repubblica Sergio Mattarella che nella sua modesta retorica ieri ha detto: «Diritto al cibo vuol dire pace» (e infatti c’è guerra ovunque), con buona pace del ministro agricolo Maurizio Martina che tutto ha fatto tranne che imporre al mondo la visione italiana del coltivare: rispetto della biodiversità, agricoltura di specialità, qualità contro quantità.
L’Italia ha vinto la sfida di organizzare bene l’Expo, ma ha perso la sfida di indicare al mondo le ragioni di quella «grande domanda di Italia, di bellezza italiana, di cultura italiana, di gusto italiano» che ieri Mattarella ha rivendicato.
In corso di Expo sono accaduti eventi che indicano come la globalizzazione avanza inarrestabile. In realtà significa omologazione del gusto per assicurare alle multinazionali, le vere padrone di Expo, il mercato più vasto possibile. Così come vogliono che ci mettiamo tutti le stesse mutande, che guidiamo le stesse automobili, che consumiamo la stessa tecnologia, così pretendono che mangiamo tutti le stesse cose. Il cibo è prima di tutto un prodotto di cultura, è un’identità sensoriale che come le lingue è espressione di valori, di territori, di comunità diversissime. L’Expo doveva essere l’occasione per far risaltare queste diversità e per trovare la via per mettere insieme rispetto di queste identità con la necessità di assicurare cibo per tutti. L’Italia con il suo modello agricolo aveva l’eccezionale opportunità di proporre al mondo il suo modus operandi e vivendi. Ha fallito. Perché intanto si sono fatti gli accordi transpacifici, perché va avanti la trattativa del TTIP che significa accettare di mortificare le nostre peculiarità sull’altare del libero scambio che tutto è tranne che libero, perché l’Europa sta aprendo agli OGM negando il diritto dei singoli paesi di opporsi.
I pronunciamenti recenti dell’Oms sulla carne a cui faranno seguito quelli sul caffè ed è lecito aspettarsi un’offensiva sui formaggi non sono affatto dettati dalla preoccupazione per la salute, ma per la tenuta dei conti pubblici. Ci hanno spacciato bufale come quella che ci nutriremo d’insetti perché non ci sono sufficienti proteine nel mondo, ma a nessuno è importato un fico secco del lago Ciad a secco perché lo sfruttamento idrico dei terreni africani che sono soggetti alle servitù della Cina affama le popolazioni. Ebbene l’Italia dei 600 salumi, dei 400 formaggi, dei grani antichi, delle razze autoctone, del 50% di biodiversità vegetale europea custodita sull’Appenino doveva interporsi tra gli omologatori e gli affamati per indicare che una strada diversa non solo è possibile, ma è attuale e produce qualità e benessere. Ma in Expo non c’è stato posto per chi si incarica di nutrire il pianeta: gli agricoltori non sono stati i protagonisti. Del resto abbiamo scelto di rappresentarci attraverso gli chef, gli affaristi di contorno e i grandi marchi non facendo sapere al mondo che quei prodotti, quella cucinasono possibili perché c’è una nostra agricoltura. Expo è stato lo show del cibo, non il luogo di riflessione sul modo in cui la terra può nutrire gli uomini e sul ruolo indispensabile che hanno gli agricoltori. Misureremo ora quanta informazione agricola resisterà sui grandi media, vedremo se dallo show dei fornelli si riuscirà a passare alla consapevolezza del valore del cibo, valuteremo se nello sviluppo del Paese ci sarà la centralità agricola. Se vincerà una visione agricola che riduce il coltivare a produrre commodity, se perdurerà la finanziarizzazione dell’economia allora l’Expo sarà stata inutile. Si discute su che fine farà l’albero della vita. Se metterà radici nel terreno della consapevolezza allora darà buoni frutti. Altrimenti per l’agricoltura italiana comunque vada sarà un decesso.
Libero – 3 novembre 2015