Punto debole della manovra, la spending review da 10 miliardi, ora quasi dimezzata a 5,8 miliardi, rischia di trasformarsi nell’ennesima sconfitta della strategia annunciata dal governo per erodere in modo strutturale sprechi e inefficienze da un moloch di spesa pubblica superiore agli 800 miliardi all’anno. Una sconfitta segnata non solo dalle dimissioni, ormai prossime, del terzo commissario alla spending in meno di tre anni, il bocconiano Roberto Perotti, dopo Enrico Bondi (otto mesi nel 2012) e Carlo Cottarelli (un anno tra 2013 e 2014). Ma soprattutto dalla confusione che regna sui saldi stessi della manovra.
I 3,1 miliardi indicati nel comunicato finale di Palazzo Chigi (unica fonte ufficiale in mancanza ancora di un testo vero) come «ulteriori efficientamenti » – a cui sommare i 5,8 miliardi – sono di fatto risorse fantasma. Un buco da riempire, non si sa bene come, nato nella notte prima del Consiglio dei ministri di giovedì come posta residuale, così raccontano gli addetti ai lavori. Come a dire, troveremo poi il modo di riempirlo.
E un modo lo suggerisce la bozza della legge di Stabilità, circolante in queste ore (ma che Palazzo Chigi smentisce): minori trasferimenti a Regioni (1,8 miliardi) e Comuni (300 milioni) che si aggiungono ai risparmi di spesa sugli acquisti, comunque gravanti anche sugli enti locali. Se confermati, questi tagli vanificherebbero l’obiettivo stesso della manovra, fatta per abbassare non alzare le tasse e per spingere la crescita, come ripete di continuo il premier Renzi. Anche perché non è che gli altri 5,8 miliardi siano completamente indolori: sacrifici sui ministeri, non proprio chirurgici, 2 miliardi di tagli alla Sanità (che per pudore linguistico sono definiti mancato aumento del fondo), riduzione delle centrali di acquisto tarata sul modello Consip. Burocratese da tradurre.
Un menù non così dissimile dal classico, anche di epoca tremontiana, quando per reperire denari si raschiava senza regole e soprattutto senza un piano. «La mia proposta di spending review conteneva solo un miliardo e mezzo di tagli alle detrazioni », si limita a dire Roberto Perotti, non confermando né smentendo le dimissioni. Un modo elegante di rispondere indirettamente alla battuta di Renzi in conferenza stampa: «Ci sono 4 miliardi di tax expenditures, una sorta di bonus fiscali, sui quali sarebbe giusto intervenire, ma questo vorrebbe dire alzare le tasse. Noi non vogliamo farlo su niente, così abbiamo deciso di non toccare le detrazioni». Parole che Perotti, anche se non lo dice, ha gradito poco. Anche perché in un suo documento consegnato in aprile al ministero dell’Economia (e in altre interviste uscite dopo), il docente della Bocconi aveva proprio suggerito un taglio il più possibile circoscritto delle detrazioni fiscali, da 1,5 miliardi («i sussidi non più sostenibili ») su 160 miliardi totali, vista la delicatezza del tema. «Sarà un lavoro di cesello molto preciso, non vogliamo fare tagli a pioggia». Lavoro ora vanificato?
Di sicuro, qualche affanno di troppo sulla spending review nelle ultime settimane c’è stato. E alla fine hanno vinto le ragioni politiche. Ora che i tempi stringono si prova a raggranellare un po’ di tutto: fondi per gli esodati non spesi, giochini contabili sul bilancio dello Stato alla voce ammortamenti, non ben precisate risorse delle Regioni che avanzerebbero. Nel documento programmatico di Bilancio inviato giovedì a Bruxelles (da ieri sul sito del Mef anche in italiano) si indica una revisione di spesa pari allo 0,5% del Pil, dunque 8,5 miliardi, senza però svelarne il menù. Sicuri solo 5,8. Il resto, si vedrà.
Repubblica – 18 ottobre 2015