Carlo Petrini. «Dietro ogni formaggio c’è un pascolo d’un diverso verde sotto un diverso cielo: prati incrostati di sale che le maree di Normandia depositano ogni sera; prati profumati d’aromi al sole ventoso di Provenza; ci sono diversi armenti con le loro stabulazioni e transumanze; ci sono segreti di lavorazione tramandati nei secoli » Italo Calvino ( Palomar , Einaudi).
Le parole di Italo Calvino esprimono mirabilmente i fattori naturali, umani e culturali che fanno dell’universo dei formaggi uno dei più ricchi e vari all’interno della produzione alimentare. Suggeriscono altresì alcuni degli ingredienti che dei prodotti caseari determinano l’eccellenza, la particolarità, l’unicità, in un equilibrato combinarsi di condizioni ambientali, risorse animali e savoir faire artigianali elaborati nel corso di secoli.
Questo è ancora più vero se parliamo delle terre alte, delle zone montane e premontane che sono state esse stesse plasmate dalla pastorizia e dall’allevamento, un’attività che ha sfamato generazioni di donne e uomini e ha creato alcuni dei prodotti tradizionali più buoni e apprezzati nel mondo. A che punto siamo però oggi? Che cosa resta di questo immenso patrimonio? La situazione purtroppo non è rosea, e il pascolo montano con il suo enorme bagaglio di conoscenze e tecniche uniche, con la sua relazione quasi mistica tra l’uomo e i suoi armenti, rischia di sparire.
Il mercato dei prodotti caseari non consente a malgari, pastori e ai piccoli allevamenti di essere remunerati adeguatamente per il loro lavoro che, oggi occorre più che mai ricordarlo e sottolinearlo, non consiste solo nel prendersi cura degli animali. Già, perché mantenere i pascoli in montagna significa salvaguardare un ambiente unico, generare economie collaterali come il turismo e la gastronomia di qualità, significa ridare fiato e slancio a intere comunità che senza questa economia sono destinate a disgregarsi, significa anche salvaguardare un assetto idrogeologico di fondamentale importanza per l’ambiente a valle, significa garantire la sopravvivenza di una biodiversità che ha nei pascoli il suo habitat e che in caso di abbandono non ha futuro. Una montagna che vive distribuisce i suoi benefici a valle sotto diverse forme.
Scrivere queste cose in questo momento fa un effetto particolare perché in questi giorni le mandrie stanno scendendo dai pascoli, e la speranza è che non sia questa una delle ultime volte in cui possiamo assistere a questo spettacolo. Perché oggi fare alpeggio è sempre più difficile. Il mercato non riconosce questo lavoro, i costi degli alpeggi sono sempre più cari (spesso accessibili solo a grandi allevamenti intensivi di pianura che ne acquistano i diritti di utilizzo, non per portare gli animali al pascolo, ma per accedere alle sovvenzioni europee o aumentare il diritto di superficie dell’azienda) anche perché unica fonte di entrate per molti comuni. Poi si aggiunga che per alcuni formaggi in commercio il latte è un elemento secondario, senza contare la direttiva europea che chiede agli stati membri, in nome della libera concorrenza, di consentire la produzione di formaggio con latte in polvere.
Insomma, urge un cambio di mentalità da parte di noi consumatori, perché il potere che abbiamo è alto se siamo consapevoli delle nostre scelte e dobbiamo essere i primi alleati di un sistema agricolo come la pastorizia. E non me ne vogliano gli allevatori intensivi delle nostre pianure, che ancora, pur faticando, riescono a tirare avanti avendo costi più contenuti e economie di scala più efficienti. Perché l’alpeggio ha in sé qualcosa di magico, perché ogni lembo di terra dà caratteristiche diverse e ineguagliabili al latte degli animali che vi pascolano e dunque ai formaggi che da quel latte si producono. Basti pensare all’incredibile mix di erbe che dà vita all’Asiago stravecchio, che dal foraggio dell’altopiano trae la sua straordinaria complessità di sapori che si fondono in un’esperienza unica. O ancora come non citare il Canestrato di Castel del Monte, che nasce in Abruzzo dal latte di pecore nutrite dalle oltre 300 erbe presenti sui prati del Gran Sasso, una delle zone di pascolo più biodiverse d’Italia. Una zona che vede ancora ogni anno lo svolgersi di transumanze che hanno questa come meta proprio per la sua unicità in termini di flora.
Non possiamo pensare di perdere tutto questo in nome di un mercato che ha trasformato in merce prima il cibo e poi anche le conoscenze ancestrali che ne costituiscono l’ humus . Come consumatori, come cittadini, abbiamo il dovere di sostenere queste produzioni, perché se chi produce non ha nel suo lavoro la soddisfazione necessaria è una sconfitta di tutti.
Se siamo quello che mangiamo, il latte degli alpeggi ci darà armonia, natura, poesia.
Repubblica – 17 settembre 2015